CAPITOLO 3
ZEUS

Elio superò di corsa il parco giochi affollato di mamme e bambini e imboccò la pista ciclabile che fiancheggiava la scuola; da una finestra aperta scorse un professore dai lunghi capelli corvini chiacchierare con la professoressa Soave, ancora agitata forse per il comportamento degli studenti. Chissà se l’indomani avrebbe ricevuto la sua prima nota, superando persino Marco Galvan, un ex studente diventato leggenda per aver ricevuto tre giorni di sospensione dopo solo una settimana di lezioni. Sara parlò per giorni di lui, raccontando alla famiglia di quando il ragazzo aveva attivato l’estintore della palestra, portando il panico. La polvere aveva ricoperto la stanza che precedeva l’aula di ginnastica, facendola assomigliare a un giardino innevato. Ricordò che il nonno aveva soprannominato quel ragazzo “il teppista della palestra”, chiedendole quotidianamente se avesse combinato altre birbanterie.
La pista ciclabile, interrotta ogni cento metri dall’imbocco di una via, arrivava quasi a casa dei nonni. Era la prima volta che percorreva quella strada da solo ed era sicuro che, arrivato a casa, avrebbe ricevuto una strigliata epica, degna di un racconto omerico.
Il fiato finì all’imbocco di via Bachelet, in prossimità del recinto delle galline del vecchio Vidale, un amico dei nonni. L’uomo passava le giornate ad accudirle ed Elio, di tanto in tanto, andava ad aiutarlo, aggiudicandosi così il soprannome di “Pollo”. Gli era stato affibbiato da Alberto che un giorno, mentre era in bicicletta con la madre, l’aveva visto giocare con due galline.
Il giorno dopo, il bulletto non aveva perso tempo: aveva radunato l’intera classe e raccontato la scena, facendo una perfetta imitazione delle galline.
Quel giorno, Elio Ricci pianse, ma nessuno smise di prenderlo in giro, anzi, fu l’inizio del tanto detestato soprannome.
«Ragazzo.»
Elio, le mani attaccate al recinto, cercò la sorgente della voce. Da dietro il pollaio, un uomo anziano dall’ampia stempiatura con un rastrello arrugginito e un largo sorriso lo stava salutando.
«Ciao Flavio» rispose il giovane. «Sai, oggi ho iniziato le medie» continuò ora sorridente.
«Per la Peppa!» esclamò il vecchio lasciando cadere l’arnese e avvicinandosi al giovane.
«E raccontami, com’è andata?»
Elio fece una piccola smorfia. «Bene» mentì. Era la risposta standard che dava a tutti a quella domanda, anche se magari aveva preso due insufficienze e una nota.
«Ora devo andare, mia nonna mi sta aspettando.»
«Va bene, salutami tutti, e mi raccomando stai lontano dai guai».
Elio tornò a camminare a passo spedito verso casa e imboccò il sottopassaggio che collegava Bertesinella, il quartiere natale del padre, e la Stanga, il suo.
Stava percorrendo la scura strada senza togliere lo sguardo dai graffiti fatti con bombolette di vernice nera sui muri quando, d’improvviso, urtò contro qualcosa e finì a terra.
«Ti sei fatto male, ragazzo?» domandò un uomo che Elio riconobbe subito.
«Mi scusi signore, non l’avevo vista» si affrettò a dire. «Ma lei non è un insegnante della mia scuola?» chiese, ricordandosi di quando gli aveva gentilmente indicato l’aula magna.
L’uomo lo aiutò a rialzarsi e gli sistemò lo zaino, ripulendolo con tre colpi dalla polvere.
«E queste impronte?», indicò un punto della rossa cartella eludendo così la sua domanda.
Elio se la tolse e notò che uno stampo grigio di una scarpa era rimasto visibile.
«Oh, l’ho calpestata per sbaglio» mentì ripulendola con un lembo della maglietta arancione.
«Che scritta curiosa» ammise l’uomo puntando il lungo dito sulla scritta della maglia.
Elio la guardò e, sorridente, gli rispose: «L’ho fatta stampare io».
L’uomo, vestito con una specie di camicia gialla coperta da un gilet smanicato di pelle marrone, dei pantaloni a tre quarti neri con grandi tasche e un paio di scarpe scamosciate, da cui spuntavano dei calzini dello stesso colore della camicia, sorrise. «Mi piace la fantasia con cui ti sei vestito.»
Elio incrociò i suoi profondi occhi marroni, e si sentì a disagio.
«Stai tornando a casa?»
«No, mio padre mi aspetta oltre il sottopassaggio» rispose lui prontamente, ricordando le raccomandazioni che sua madre faceva a sua sorella.
«Tuo padre eh…» mormorò l’uomo ammiccando, «molto bene, vedo che hai imparato che non devi dare retta agli estranei.»
Estrasse dal taschino del gilet uno strano oggetto, simile a una penna di cristallo dalla punta diamantata e s’incamminò verso la direzione da cui Elio era arrivato.
«Ci si vede, giovane Elio.»
Elio, ancora stranito per l’avvenimento, si ripulì le braghe impolverate notando un oggetto in bilico sopra la griglia per lo scarico dell’acqua.
«Una penna» disse raccogliendo il tubicino di plastica nera trasparente chiuso con un tappo molto lungo.
«Signore, le è caduta…» ma l’uomo era sparito.
Decise di infilarsi l’oggetto in tasca e tornò a camminare verso casa, in fondo, si trattava solo di una penna.
La casa blu lungo Strada dello Stige era subito dopo il sottopassaggio. Il parcheggio di ghiaia era vuoto, fatta eccezione per la Fiat Punto grigia della signora Laura, la parrucchiera che aveva il salone sotto il suo appartamento.
Le tapparelle del suo terrazzo erano sollevate e le finestre spalancate, segno che qualcuno era in casa.
Il palazzo era composto da quattro pianerottoli con due appartamenti ciascuno. Il primo, partendo dal basso, della signora Farina e del signor Barbieri, una coppia di anziani sempre pronti a rimproverare lui e il fratellino per i continui schiamazzi; il secondo, della signorina Dalla Vecchia, una ragazza di trent’anni che viveva lì da pochi anni; il terzo era quello dei nonni, e l’ultimo invece, era disabitato da sei anni.
Era lì che abitavano prima che il loro padre li abbandonasse, proprio sullo stesso pianerottolo dei nonni.
«Chi è?» domandò una voce severa dal citofono dopo la seconda volta che il piccolo Elio aveva suonato.
«Io, nonno» rispose, «Elio.»
Un crack, e la porta di vetro si aprì. Elio la spinse con troppa energia e la porta si schiantò contro il muro di destra, creando un piccolo solco nell’angolo superiore. Sulle scale c’era il vecchio Barbieri.
«La vuoi rompere?» domandò avvicinandosi minaccioso. Indossava un paio di pantofole blu, una tuta in tinta unita grigia e un berretto dello stesso colore col frontino dritto.
«Io… scusa» balbettò, il viso rosso per la vergogna, gli occhi posati sulle scarpe da ginnastica.
«Ovviamente ora tocca a me sistemare il muro» bofonchiò mostrando i denti giallastri. «Vattene a casa e cerca di non combinarne altre» concluse passando il dito sulla parte mancante di muro, facendo cadere della polvere. Elio afferrò le spalline dello zaino e corse, risalendo le due rampe di scale.
«Cos’hai combinato adesso?» domandò il nonno alla porta. «Ho sentito Armando lamentarsi.»
Elio posò lo zaino a terra, vicino al freddo termosifone del corridoio.
«Niente, si è arrabbiato perché ho sbattuto il portone» rispose omettendo il particolare più importante, il muro danneggiato.
I baffi cenerini del nonno si arricciarono, i suoi occhi azzurri, dietro le spesse lenti, parevano leggerlo.
«Come mai sei già a casa? Tua nonna doveva venire a prenderti all’una, e ora sono le undici.»
Il giovane dalla faccia innocente scrollò le spalle: «Oggi era il primo giorno e le lezioni finivano alle dieci. Se mamma fosse andata alla riunione la settimana scorsa lo avremmo saputo tutti».
Il nonno sbuffò, si grattò la testa stempiata e tornò in camera sua lasciando Elio davanti alla televisione.
Qualche minuto dopo la porta di casa si riaprì, e una stanca signora Elvira con due sacchetti della spesa entrò, ma quando si trovò davanti il nipote, domandò allarmata: «Cosa fai a casa?»
Elio spiegò alla nonna cos’era successo, e questa s’infuriò.
«Vai in camera tua e quando torna tua madre farai i conti anche con lei. Tornare a casa da solo, ma questo è matto!»
Elio sbuffò, spense la Tv e andò in camera, triste e adirato.
«Non è colpa mia» borbottò scaraventando lo zaino sopra il letto del fratellino. Ne estrasse un blocco da disegno, l’astuccio nuovo e li appoggiò sulla piccola e caotica scrivania.
Ripensò d’un tratto al suo primo giorno di scuola, alle prese in giro dei suoi compagni, agli insulti e allo sguardo della Fin quando aveva fatto scattare l’allarme, e d’istinto, trattenendo le lacrime, pensò: Quanto vorrei un amico.
Aprì il blocco di fogli bianchi contornati da una cornice rossa e iniziò a disegnare: la punta della penna premuta contro il foglio si muoveva a scatti, tracciando dei piccoli solchi.
«Non funziona» lamentò scuotendola. Provò persino ad alitare sulla sfera, ma anche quel tentativo fallì.
Colto da un improvviso attacco di rabbia, scagliò il piccolo oggetto contro il muro, spaccandolo in due parti. Si alzò e si chinò per raccoglierne i pezzi quando qualcosa gli strisciò sulla gamba. Infilò la mano in tasca e ne estrasse la penna nera che aveva trovato nel sottopassaggio. «Vediamo come funziona.»
Sfilò il lungo tappo e posò la punta sul foglio, ripassando i solchi fatti con la penna non funzionante.
Per prima cosa disegnò il corpo, lungo e affusolato, sostenuto da quattro zampe, forti e possenti, che posavano sul vuoto del foglio, un vuoto che presto diventò una roccia. Le code erano tre, fini all’attaccatura, più grosse al centro, per poi finire a punta, come quella di una volpe. Disegnò con estrema attenzione un delicato muso schiacciato, come quello di un Carlino, o di un Boxer, vista la stazza da cui spuntava un grosso naso. Ad attorniarlo, una spessa e appuntita maschera di osso, divisa in tre pezzi di cui una, quella superiore, sembrava una corona con cinque punte rivolte verso l’alto, mentre le due laterali, delle ali di una farfalla.
Il cane era messo di lato, quindi l’occhio destro era nascosto. Era una tecnica che gli aveva insegnato il maestro di disegno delle elementari, una tecnica che lo agevolava dato che non riusciva mai a rendere i due occhi simmetrici.
Si concentrò quindi su quello sinistro, tracciando un trapezio attaccato alla corona. Al centro una sfera, che ne conteneva a sua volta una molto più piccola, che marcò premendo la penna nera. Uno sguardo profondo, inquietante e al contempo rassicurante.
Elio guardò il disegno per diversi minuti, non del tutto soddisfatto della sua opera. Sembrava volesse renderlo, per quanto possibile, ancora più inquietante. Spostò la penna intorno al quadrupede, senza segnare il foglio, posando la punta affusolata intrisa d’inchiostro nero, sulla schiena del cane, tracciando dei segni ricurvi, segni che presto presero la forma di fiamme.
«Bello» ammise soddisfatto guardando ogni minimo dettaglio.
Il giovane stava rifinendo la maschera quando la punta della penna scivolò, sporcando di azzurro l’interno della corona.
«Ma…» disse sorpreso guardando la linea colorata che iniziò a espandersi sino a riempire l’interno dell’area. Si alzò di scatto, e la sedia rovinò al suolo. Senza aspettare, fece subito un segno a vuoto sulla copertina del blocco.
«È nero» mormorò, stupito.
Posò ancora la punta della penna dentro una delle maschere laterali, e fece pressione.
«Ma cosa sta succedendo?»
Il puntino iniziò a crescere, e in pochi secondi colorò l’intera maschera di azzurro.
Euforico, e al contempo spaventato, fece la stessa cosa sul corpo della bestia: un nuovo segno si allargò, fino a creare un folto manto fulvo.
«Ma è magnifico.»
Le zampe e il pelo del petto diventarono rosse vermiglio; le fiamme di un intenso blu cobalto; l’occhio una piccola sfera di un viola così brillante da farlo sembrare vero.
Fece la stessa cosa sulle tre code, le quali presero il colore del resto del corpo: quella centrale, della stessa tonalità fulva del manto; quella di sinistra, nascosta dalle fiamme blu cobalto, rossa come le zampe e il pelo del petto; mentre la terza, quella di destra, assunse il colore azzurro della maschera.
«Lo chiamerò Zeus!»

Il ragazzo restò in camera per il resto del pomeriggio, saltando persino il pranzo.
Intanto i fratelli erano tornati dal loro primo giorno entusiasti.
Sara canticchiava un motivetto fastidioso, lo stesso dall’inizio dell’estate, la colonna sonora di una pubblicità di cioccolatini.
Dani sovrastava la voce della sorella con la stessa canzone che cantava in macchina, sbattendo, l’uno contro l’altro, due coperchi metallici.
Erano le quattro di pomeriggio, e l’intero condominio era già stanco di sentire il caos della numerosa famiglia.
«Dani, stai buono» mormorò la nonna porgendogli un succo di frutta alla pera e un panino con la cioccolata.
«Guarda i cartoni» continuò accendendo la televisione.
Elio, sentendo la musichetta della pubblicità chiuse la porta e tornò alla sua scrivania.
Estrasse dallo zaino una circolare che gli aveva dato la professoressa Soave, con gli orari provvisori e li osservò controvoglia.
Prese da uno dei cassetti della scrivania due grossi libri ancora avvolti nella pellicola trasparente: La matematica non è un’opinione, L’arte di disegnare e un quaderno a quadri con un robot che volava sopra la Terra sparando missili infuocati. Rimise il tutto nello zaino, compreso l’astuccio e il blocco da disegno, e lo richiuse, riponendolo con un calcio sotto la scrivania.
In quell’istante la porta dell’ingresso si spalancò.
«Eccomi» annunciò la mamma. I capelli spettinati, il trucco sciolto e due profonde occhiaie scure facevano comparire Benedetta più vecchia di almeno cinque anni.
«Mamma, mamma, Elio è in punizione» gridò euforico il piccolo di casa.
La mamma, ancora indaffarata a levarsi il giubbino di jeans, si fermò e guardò il bambino.
«Ah davvero? E perché mai?»
Il bambino rispose con una sonora risata e iniziò a correre avanti e indietro nel lungo corridoio scuro.
«Mamma, cos’è successo adesso?»
La nonna, apparsa dalla cucina maneggiando uno strofinaccio umido, sospirò.
«Ricordi la riunione alla quale non ti sei presentata lo scorso mercoledì?»
Benedetta, ancora con le chiavi e il giubbetto in mano, la fissò perplessa.
«Riunione? Quella alla scuola di Elio?»
«Esatto» rispose l’anziana. «Hanno comunicato ai genitori che la lezione di oggi sarebbe finita alle dieci. Elio non sapendo nulla, invece di telefonarci, ha pensato bene di tornare a casa da solo.»
Gli occhi di Benedetta si fecero d’un tratto comprensivi, e decise quindi di andare da suo figlio.
«Posso entrare?» domandò, bussando alla porta chiusa.
«Certo.»
Elio la guardò storto, offeso per la sua superficialità e indifferenza verso le sue cose.
«Ti chiedo perdono, è colpa mia se sei in questa situazione» si scusò con voce amorevole sedendosi nel letto ancora sfatto di Daniele.
Elio era in piedi e guardava dalla finestra la corte interna, dando le spalle alla madre.
«Ma tu non avresti dovuto tornare a casa da solo, sai che non voglio.»
Il ragazzo richiuse la tenda e si sedette al suo fianco.
«Lo so, scusami mamma», la abbracciò.
Davanti a un gesto simile, alla mamma non restava altra scelta che ricambiare l’amorevole stretta.
Dopo avergli stampato un bacio sulla fronte, Benedetta si alzò e lasciò la stanza. Elio allora tornò alla sua postazione di prima davanti alla finestra, quando venne attratto da una cosa tanto bizzarra quanto allarmante. L’uomo che aveva incrociato nel sottopassaggio era davanti casa sua, fermo.
A un certo punto, ricordò una cosa successa poco prima, una cosa a cui, sul momento, non aveva dato peso. Mi ha chiamato Elio.
Chiuse la tenda e corse in salotto: «Mamma, vieni» gridò agitando le mani.
La donna stava mangiando un mandarino, si infilò tre spicchi in bocca, si alzò dalla comoda sedia in velluto e seguì il figlio.
Elio tirò la tenda e vide lo sconosciuto ancora fermo nella stessa posizione.
«Cosa?» chiese la donna, il naso premuto contro il vetro.
«Quello» strillò lui indicando l’uomo che, come se nulla fosse, era rimasto col volto rivolto alla sua finestra dentro il giardino condominiale.
«Elio, non c’è nessuno lì» affermò, stranita.
«Come no, mamma» disse il ragazzo alzando la voce, nervoso per la strana situazione «è lì, ha i capelli rossi e…»
«Adesso basta! Ti ricordo che sei finito dalla preside per aver inventato una storia simile, forse non ti è servito a nulla» il tono duro senza lasciare spiraglio di replica. «Ora vai a farti la doccia, ceni e vai a letto!» gridò uscendo sbattendo la porta.
Elio, sull’orlo delle lacrime, si voltò in direzione dell’uomo, ma era scomparso.