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CAPITOLO 2

Aggiornamento: 10 apr

IL PRIMO GIORNO




La piccola e scoppiettante macchina, dopo aver superato Strada dello Stige, svoltò a destra e inchiodò a pochi centimetri da alcuni studenti che aspettavano l’arrivo del bus.

«Nonna, ti prego, portami alla prossima fermata, non voglio che ora mi vedano scendere da qui.»

Lo sguardo della nonna si fece simile a quello di una maestra. «Buona giornata, Sara, e cerca di comportarti bene», concluse, e le fece segno con la mano di andare.

Sara sbuffò, poi raccolse lo zaino e uscì, senza salutare nessuno e senza guardare l’auto che ripartiva in un boato di fumo nero.

Dopo aver girato intorno alla rotatoria, la signora Elvira imboccò strada Ca’ Balbi procedendo per circa un chilometro prima di svoltare a sinistra. «Agitato?» domandò a Elio, guardandolo attraverso lo specchietto retrovisore.

Lui aprì la bocca per risponderle, ma il piccolo Dani gli impedì di farlo sovrastando il suo sussurro strozzato: «Le sere delle stelle la notte delle botte, ma il conte Canterino che dorme di mattino, la sera guarda il cielo e canta in un baleno, il conte Canterino è un bravo ballerino, lui balla nella stalla e gioca con la palla, il conte Canterino è—»

La macchina inchiodò. Elio, senza rendersene conto, era arrivato a scuola.

«Ho qualche minuto, vuoi che venga dentro con te?»

«No nonna, tranquilla. Grazie comunque.» Si sporse verso di lei e le stampò un bacio sulla guancia rugosa, raccolse lo zaino, aprì la cigolante portiera e scese dalla macchina. Salutò tutti un’ultima volta e raccomandò a suo fratello di non disturbare Federico, il bidello della scuola elementare.

Accompagnata dal solito scoppio e dalla nube di fumo nera, la macchina ripartì, lasciandolo tra gli studenti dell’istituto.

A sinistra dell’edificio, oltre una pista ciclabile, c’era un parco giochi affollato da ragazzini alti il doppio di lui; alcuni, notò, avevano anche qualche accenno di barba.

«Bambinetto, vai dentro prima che suoni la campanella», consigliò uno di loro.

Elio deglutì e tornò a marciare a passi ben distesi verso l’ingresso della scuola, costeggiando la bassa ringhiera tinta di fresco di un porpora scuro, finché una voce arcigna non chiese permesso.

Si voltò e si imbambolò a guardare Milena, che frequentava una sezione diversa della sua vecchia scuola.

«Scusami», rispose Elio spostandosi.

La ragazza lo superò facendo oscillare i lunghi capelli biondi, poi si voltò per osservarlo meglio e ridacchiò. «Però, complimenti per lo stile», e indicò gli abiti scombinati.

«Oh, grazie!»

Milena strabuzzò gli occhi, poi raggiunse un gruppetto di amiche e lì esplose in un’echeggiante risata.

Anche Elio riprese a camminare, schivando i genitori inginocchiati a salutare i figli e altri coetanei che correvano elettrizzati per tutto il marciapiede esterno alla scuola ma, colto dall’ansia, esitò al limitare del cancello, finché una voce burbera non ruggì: «Allora? Entri o no, Pollo?».

Elio si voltò e si ritrovò davanti il perfido bullo delle elementari: Fabio Menti.

«Ciao,» balbettò, «come stai? Hai… passato delle buone vacanze?»

Fabio, una spanna più alto di lui, non gli rispose ma lo spinse via come fosse un moscerino fastidioso.

Elio scivolò al suolo e picchiò il ginocchio. Sapeva che se avesse pianto sarebbe diventato lo zimbello della scuola, così strinse i denti, si rialzò e zoppicò verso l’ingresso dell’edificio.

Ai lati del piazzale di cemento, due giardini con fiori, alti castagni e piccoli cespugli, presentavano due cartelli gemelli: Non calpestare l’erba.

“Ma come possiamo giocare lì se non possiamo calpestare l’erba?”

«Poopopopo.» Il verso di un pollo risuonò tra un gruppetto di ragazzi vicino alla larga scalinata antistante all’ingresso della scuola.

Elio sapeva bene che si stavano riferendo a lui, e per evitare ulteriori scherni fece finta di niente, si spostò a destra e raggiunse l’atrio risalendo la rampa adibita ai disabili.

«Bravo, Pollo, ecco, quello è il tuo ingresso!» gridò Carlo Cortese, ex compagno di classe delle elementari.

«Pollo, chi ti ha vestito? Un cieco forse?» e la domanda fomentò ancora le risate. Questa volta, a parlare era stato Alberto Conte, il bulletto che perseguitava Elio sin dai primi anni di asilo.

Elio salutò tutti con un gesto della mano, dopodiché proseguì per la sua strada arrivando davanti a tre porte dal montante rosso e con i vetri così puliti che poté vedere l’immagine riflessa di Alberto che mimava un pollo, ma ritrovò il sorriso in una simpatica locandina animata, affissa su una delle due porte chiuse. Raffigurava un ragazzino con corti capelli rossi, occhiali squadrati premuti sul naso a patata circondato da quattro lentiggini. Se ne stava seduto su un banco, i piedi posati sulla sedia, e dalla bocca gli spuntava un balloon fumettistico: Se sai fare 2 + 2 e 0 x 1988,6 allora perché non partecipare al concorso di Archimede?

In basso, scritto in grassetto: Per partecipare iscriviti al sito www.concorsoArchimede2000.org, oppure chiedi al tuo insegnante di matematica. Al vincitore spetta una targa d’oro e un soggiorno per due persone presso le strutture aderenti. Per info, chiamate il numero 359/8899001 o scrivete a concorsoarchimede@archimede.com.

«Matematica? Non fa per me», commentò Elio, deluso, prima di entrare e farsi avvolgere dal dolce profumo di libri vecchi e disinfettante.

L’ingresso era piccolo e scarno: a sinistra c’era un banco con i volantini del concorso di matematica e un’alta pianta con foglie verdi e marroni a punta. Delle fotografie erano appese alla parete, rappresentavano ex studenti; alcuni ritagli di giornali erano affissi lì accanto e parlavano della scuola. Uno in particolare, ingiallito dal tempo, catturò l’attenzione di Elio: raffigurava due bambini identici, sotto c’era scritto, in grande, Scomparsi.

Si trattava di Massimo e Adriano Gallo, i gemelli spariti dalla Bortolan da più di cinquant’anni. Secondo la credenza di Sara, i due erano ancora intrappolati nella scuola, utilizzati dagli insegnanti per infliggere nuove punizioni. La storia aveva spaventato molto Elio, ma il vecchio Gigi non aveva esitato a rimproverarla: «Non si scherza sulle disgrazie altrui, piccola teppista. Rifallo e sarai punita come tua madre non ha mai fatto!».

Da quel momento, i Gallo non erano più stati menzionati in casa Ricci.

A destra, oltre uno spesso vetro lindo, una signora grossa con i capelli scuri intrecciati in un alto chignon, osservava tutti i ragazzi che tra risate e schiamazzi superavano l’ingresso. Sara aveva raccontato spesso storie sulla vecchia Fin, la bidella. Era una donna sola e arrabbiata; odiava le grida e non tollerava chi la disturbava per ragioni futili.

“Dove devo andare adesso?” Il primo pensiero di Elio fu quello di chiedere alla vecchia, ma quando i loro sguardi si incrociarono, decise di evitare di entrare subito nel famigerato “libro nero della Fin”.

“Si sa solo che chi finisce in quel libro si fa male, sparisce o muore.” Le parole di Sara risuonavano solenni nella testa di Elio, ora più spaventato che mai. Decise così di arrangiarsi e raggiunse una locandina rosa affissa sulla parete davanti a sé.

L’inserimento delle prime avverrà nell’aula magna.

Si ricordò che l’anno precedente aveva assistito al concerto di fine anno della sorella, che si era tenuto proprio in quell’aula. Guardò a destra, poi a sinistra, ripetendo la cosa almeno sei volte.

Optò per il corridoio di destra, superò prima l’ufficio della Fin, chiuso da una porta rossa, poi la segreteria, da cui si potevano scorgere due giovani e indaffarate donne che maneggiavano plichi di fogli, e si fermò solo quando si trovò davanti a una porta chiusa, su cui una targhetta dorata recitava Presidenza.

Deglutì, ripensando a quando in quarta elementare la maestra Paola l’aveva mandato dalla preside per aver gridato, tre volte in un’ora, che fuori dalla finestra c’era un pappadrago, un drago piumato dai colori di un pappagallo che ripeteva ciò che dicevi.

Una porta alle sue spalle si aprì, e un uomo alto e allampanato dai corti capelli rossi mormorò: «Ragazzo, ti sei perso?».

Elio percorse a ritroso un metro del corridoio e, guardando l’uomo dal volto gentile, annuì.

«L’inserimento sta per iniziare, entra pure», riprese tenendo la porta aperta. Elio lo ringraziò e lo superò.

Un anfiteatro si delineò dinanzi a lui, composto da quattro file di scalinate che svolgevano il ruolo di sedie. Parte dei gradoni inferiori era occupata da qualche decina di adulti, che Elio capì essere gli insegnanti, i quali attendevano che la preside della Bortolan desse il via all’anno scolastico.

Questa infatti, al centro del palco che troneggiava nella stanza, scrutava gli studenti dietro gli spessi occhiali, e soffiava contro un microfono vecchio quanto lei.

«Prendete posto!» gridò d’un tratto la dirigente, e i ragazzi, dopo lunghi secondi di schiamazzante caos, si accomodarono.

Elio si sedette tra una colonna e una ragazzina.

«Ciao», bisbigliò questa.

«Ciao», rispose lui.

«Che hai fatto al ginocchio?» E indicò la macchia di sangue rappreso.

Elio la coprì con la mano. «Nulla, sono scivolato», mentì.

Non aveva mai voluto dire a nessuno che era lo zimbello della classe, neppure a sua madre.

«Tu hai un cognome?» Gli occhi della fanciulla brillavano. «Io sì, ed è—»

«Benvenuti a tutti. Io sono Francesca Franchini, preside della scuola. Il mio ufficio è dopo la segreteria. Se avete bisogno, per qualsiasi cosa, chiedete di me alla signora Fin, la nostra bidella.»

“Fossi matto.”

«La scuola secondaria è il ponte che collega l’infanzia all’adolescenza, un ponte che, se non solidificato, rischia di crollare e farvi cadere nel vuoto. Il mio compito è quello di aiutarvi a rinforzare questo ponte, e il vostro è quello di camminarci sopra, fidandovi di me e dell’intero corpo insegnanti. Sappiate che tutti noi vogliamo solo il vostro bene, e se credete che qualcuno agisca contro i vostri interessi, venite a dirmelo.»

«Quante sciocchezze…» commentò a bassa voce un ragazzo dalla seconda fila.

«Dopo questa premessa, vi annuncio che, viste le numerose iscrizioni, abbiamo dovuto aggiungere una sezione. Quindi, quest’anno le sezioni saranno quattro: A, B, C e D. Siete in ottantotto, perciò formeremo quattro classi da ventidue alunni. Ora, iniziando dalla sezione D, chiamerò i vostri nomi e voi verrete qui.»

Elio impallidì. Non sopportava di restare sotto lo sguardo di tutti, e andare sopra un palco davanti agli ex compagni di classe significava solo nuove beffe.

«Marco Ambrosini», iniziò la preside. «Alessandro Barbieri.»

Il ragazzo della seconda fila che prima aveva commentato si alzò e andò verso la direttrice.

«Luca Bressan, Samanta Cannavò. Alberto Conte. Carlo Cortese.»

Gli ultimi due raggiunsero il centro della scena di corsa e si unirono in un abbraccio trionfale.

“Spero di non finire in quella classe”, si augurò Elio.

L’appello proseguì, e arrivò così il turno della letta M.

«Viola Magister.»

Ad alzarsi fu la ragazza dai capelli rossi seduta di fianco a Elio.

“Magister, che cognome strano”, pensò lui.

Poco dopo, sul palco c’erano ventun persone, il che significava che ne mancava ancora uno.

«Elio Ricci.»

«La solita sfortuna», mormorò dirigendosi con passo lento verso ciò che il destino gli aveva riservato.

«Poopopopo.»

«Silenzio!» ordinò la preside in tono grave.

A pochi passi da lei, Elio notò che era ancora più bassa e grassa di quanto non sembrasse dall’alto dell’aula magna, ed emanava un odore pungente di minestrone di verdure.

«Molto bene, potete seguire la professoressa Soave, la vostra coordinatrice.»

Una donna alta, magra e dall’aria severa si alzò dalla gradinata più bassa e raggiunse il centro del palco con passo deciso. «Seguitemi», ordinò, la voce rispecchiava il freddo dei suoi occhi azzurri.

Senza aspettare che tutte le classi fossero formate, la professoressa Soave portò fuori dall’aula magna i nuovi studenti. Salirono due rampe di scale e proseguirono lungo un corridoio di porte chiuse sino a raggiungere un’aula contraddistinta da un cartello bianco: 1a D.

«Coraggio, entrate e prendete posto senza perder tempo», intimò loro la professoressa, con voce inflessibile.

Gli studenti iniziarono a occupare i vari banchi, ed Elio scelse quello in seconda fila, sotto alla finestra che dava sul parco giochi che aveva visto prima.

«Ehi, Pollo, contento di essere nella nostra classe?» chiese Alberto, sedendosi al fianco di Carlo, proprio dietro di lui.

Distratto da un gatto randagio che risaliva un albero, Elio non sentì il commento infelice ma udì tuttavia la voce argentina di una ragazza: «Posso sedermi?».

«Oh, certo», rispose lui, riconoscendo la fanciulla dell’aula magna.

«Io sono Viola Magister, tu sei Elio Ricci, giusto?» domandò, posando a terra lo zaino blu.

«Giusto.»

Viola guardò meravigliata la mano tesa e, sorridendo con curiosità, la colpì con la sua.

«Oh, Pollo, vedo che ti sei fatto un’amichetta», sputò acido Alberto. «Non vorrei sbagliarmi ma credo che, per quanto Fiammifero possa essere strana, il perdente della classe resti tu», concluse esplodendo in una sonora risata.

«Siete pregati di fare silenzio», ordinò a denti stretti l’insegnante, in piedi sopra la pedana che sosteneva la cattedra. «Io sono la professoressa Soave, vi insegnerò italiano, storia e geografia. Sono poco tollerante ai brusii e intransigente con gli scansafatiche. Se vi do da fare dei compiti, mi aspetto che voi li facciate. Se vi dico di studiare e vedo che non sapete nulla, mi costringete a darvi un’insufficienza e una nota, quindi a perdere il doppio del tempo. Se avete bisogno o non capite qualche argomento, vi consiglio di approfittare delle nostre lezioni, in quanto saranno suddivise in quarantacinque minuti di spiegazione e quindici minuti di chiarimenti. Non abbiate paura di chiedere, temete invece di non sapere quando chiederò», concluse solenne.

«Capito, Pollo?»

La professoressa non sentì la voce di Alberto e quindi proseguì. «Ora vi chiedo di presentarvi, vi basterà dirmi il nome, il cognome e i vostri hobby. Inizia tu», e indicò una ragazza seduta in prima fila.

«Mi chiamo Stefania Nicolin,» disse questa alzandosi in piedi, «e il mio hobby è la ginnastica artistica.»

«Bene, siediti pure. Ora tu», e fece un cenno alla ragazza di fianco a Stefania.

«Mi chiamo Elena Pedrazzoli, e come lei faccio ginnastica artistica», concluse ridacchiando con l’amica.

Le viscere di Elio presero a contorcersi.

«Dai, proseguite.»

«Mi chiamo Elio Ricci, e invento storie.» Aveva pronunciato quelle parole con tale rapidità che la professoressa ci mise un po’ a capire, ma poi aguzzò gli occhi, curiosa. «In che senso inventi storie?» domandò ignorando la risatina di Carlo.

Elio si sentì sprofondare, avrebbe voluto dire solo quelle tre cose, come tutti gli altri. «Beh, nel senso che io invento storie, per gioco. Invento animali, ambientazioni e persone.»

«Ma le scrivi anche?» chiese, senza vedere Alberto pestare lo zaino di Elio.

«No, le racconto e basta.»

La professoressa indugiò su di lui per qualche istante, poi guardò Viola. Mentre ascoltava la compagna di banco, a Elio parve di vedere un accenno di sorriso sul volto ceramico della professoressa.



«Mi chiamo Viola Magister e mi sono trasferita qui da poco. La mia passione è quella di guardare mia mamma mentre cucina.»

Tra le presentazioni, e un piccolo riassunto di quello che sarebbe stato l’anno scolastico, la giornata si concluse.

Al suono della campana, la classe si disperse, a eccezione di Elio. Lui restò seduto, senza capire cosa stesse succedendo e, non vedendo via di uscita, si alzò e andò dall’insegnante. «Mi scusi, professoressa, ma dove si va ora?»

«A casa, Ricci, oggi le lezioni terminano alle dieci. I genitori sono stati avvertiti la settimana scorsa durante l’incontro genitori-insegnanti.»

Non sapeva cosa dire. Benedetta si era dimenticata di andare all’incontro, e nessuno della famiglia sapeva che avrebbe finito prima. «Ah sì, giusto», mentì.

Tornò al posto, raccolse lo zaino, lo ripulì dagli stampi delle scarpe di Alberto e uscì, seguendo la mandria urlante.

I corridoi erano colmi di ragazzi che si salutavano e si raccontavano le avventure estive.

«Io sono stato dieci giorni al campeggio della mia parrocchia. Abbiamo fatto camminate lunghissime e giocato tanto. Una notte abbiamo fatto la veglia al fuoco e gli animatori si sono ubriacati, è stato divertentissimo», raccontò Stefano, uno degli ex compagni di Elio.

Gli venne così in mente che sua madre aveva insistito tanto quell’estate per farlo andare in campeggio con gli amici, ma Elio si era rifiutato, rifilando la scusa che odiava dormire in tenda e camminare in mezzo ai boschi. La verità era che non voleva far sapere a Benedetta di non avere amici. Quando lei proponeva di organizzargli una festa di compleanno, lui le diceva che non voleva festeggiare perché si sentiva a disagio nello stare al centro dell’attenzione.

Bloccato da un gruppetto che gli ostruiva il passaggio, Elio si accorse di avere accanto a sé proprio Stefano. «Ciao, Stefano, in che sezione sei?»

Il ragazzo, accorgendosi che le gemelle Viale lo stavano guardando, si spettinò i capelli scuri e imitò con un gesto delle braccia una gallina che tentava il volo, seguito da un sonoro: «Poopopo».

Elio ne rimase sorpreso, Stefano era stato uno dei pochi ad averlo sempre trattarlo bene, forse ora voleva solo farsi vedere dalle ragazze e dai nuovi compagni di classe; ciononostante, sentì un improvviso morso al cuore che risalì fino alla gola.

Senza indugiare oltre, sforzandosi di non piangere, oltrepassò il gruppetto e percorse la scalinata fino a raggiungere il piano terra.

L’ingresso era un cumulo di schiamazzanti ragazzi. Vide la vecchia Fin, con il naso premuto contro il vetro appannato e gli occhi sempre più tirati, lividi di rabbia.

Evitò di passare tra la folla e spinse con forza la maniglia antipanico della porta chiusa.

Una sirena scattò, e la massa esagitata iniziò a disperdersi nel piccolo ingresso.

La porta rossa della bidella si spalancò con un fragoroso botto e la Fin, il viso paonazzo, gridò: «Chi è stato?».

La frase echeggiò nel piccolo antro. Elio, bocca e occhi sbarrati, la mano ancora stretta intorno alla maniglia, non si mosse. La donna marciò distendendo le piccole e tozze gambe impedite dalla stretta gonna di flanella, ondeggiando e ringhiando come un vecchio bulldog.

I più fortunati riuscirono a scansarsi in tempo, altri invece furono spinti contro il banco dell’ingresso facendo cadere a terra tutte le locandine bianche del concorso Archimede.

«Dai, scappa!»

Elio si guardò intorno: i ragazzi fuggivano schiamazzando, la vecchia bidella, ora il viso violaceo in tinta col maglione di lana sgualcita, era sempre più vicina. Poteva vedere il contorno delle labbra tatuate e le sopracciglia disegnate.

«Vai!» strillò il ragazzo lentigginoso della locandina, ora salito in piedi sul traballante banco.

Elio guardò esterrefatto il foglio, incapace di capire se la sua fantasia avesse raggiunto un livello maggiore o se lo stress provocato dalla giornata l’avesse fatto impazzire.

«Muoviti!» lo avvertì lo stesso disegno da una seconda locandina.

«Hanno ragione, devi scappare!» aggiunse un terzo.

Per rendere più agile la fuga, Elio strinse le spalline dello zaino, incollandolo alla schiena inumidita di sudore. Nel frattempo, il sonoro suono della sirena aveva attirato l’attenzione di molti insegnanti, compresa la professoressa Soave che intimava ai ragazzi di ripristinare l’ordine.

Superata la porta, Elio corse veloce fuori dal cancello, mescolandosi tra i genitori che sbirciavano l’ingresso della scuola.

«Direi che non è andata male come primo giorno», disse guardandosi alle spalle.

Sopra la larga scalinata, lo sguardo penetrante della vecchia bidella scrutava la folla di genitori, cercando di individuare il teppista. Elio ancora non lo sapeva, ma il suo nome, per il momento sconosciuto alla donna, era già finito nel libro nero della Fin.


 




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