CAPITOLO 2
IL PRIMO GIORNO

La piccola e scoppiettante macchina, dopo aver superato Strada dello Stige, svoltò a destra e inchiodò a pochi centimetri da alcuni studenti che aspettavano l’arrivo del bus.
«Nonna, ti prego portami alla prossima fermata, non voglio che ora mi vedano uscire.»
Lo sguardo della nonna si fece simile a quello di una maestra.
«Buona giornata Sara, comportati bene» concluse, e le fece segno con la mano di andare.
La ragazza sbuffò, poi raccolse lo zaino e uscì, senza salutare nessuno e senza guardare l’auto che ripartiva in un boato di fumo nero.
Dopo aver girato intorno alla rotatoria, la nonna imboccò Strada Ca Balbi procedendo per circa un chilometro prima di svoltare a sinistra. Elio ricordò tutte le volte in cui aveva percorso quella strada, ma per la prima volta era stato colto da uno strano senso di nausea.
Fissò lo specchietto retrovisore, dove incontrò gli occhi della nonna, ora più dolci.
«Agitato?»
Elio aprì la bocca per risponderle, ma il piccolo ed esuberante Dani gli impedì di farlo sovrastando il suo sussurro strozzato: «Le sere delle stelle la notte delle botte, ma il conte Canterino che dorme di mattino, la sera guarda il cielo e canta in un baleno, il conte Canterino è un bravo ballerino, lui balla nella stalla e gioca con la palla, il conte Canterino è…»
La macchina inchiodò, ed Elio, senza rendersene conto, era arrivato a scuola.
«Ho qualche minuto, vuoi che venga dentro con te?»
«No nonna, tranquilla. Grazie comunque.»
Si sporse verso di lei e le stampò un bacio sulla guancia rugosa, raccolse il suo zaino rosso, aprì la cigolante porta e scese dalla macchina.
Salutò tutti un’ultima volta prima di richiudere la porta, raccomandandosi con suo fratello di non disturbare Federico, il bidello della sua ex scuola.
Accompagnata dal solito scoppio e dalla nube di fumo nera, la macchina ripartì, lasciando il giovane Elio tra i ragazzi della scuola media.
A sinistra dell’edificio, oltre a una pista ciclabile, c'era un parco giochi affollato da ragazzini alti il doppio di lui, alcuni, notò, avevano anche qualche accenno di barba.
«Bambinetto, vai dentro prima che suoni la campanella» consigliò un ragazzo col gilet di jeans accorgendosi di lui.
Elio deglutì, e tornò a marciare a passi ben distesi verso l’ingresso della scuola, costeggiando la bassa ringhiera tinta di fresco di un porpora scuro, finché una voce arcigna non chiese permesso.
Si voltò e si imbambolò a guardare Milena, che frequentava una sezione diversa della sua vecchia scuola.
«Scusami» rispose spostandosi.
La ragazza lo superò facendo oscillare i suoi lunghi capelli biondi, poi si voltò per osservarlo meglio, e ridacchiò.
«Però, complimenti per il coraggio» e indicò gli abiti scombinati del ragazzo che senza scomporsi, ricambiò quel falso complimento con un sorriso e un fragoroso grazie.
Sconcertata, questa si voltò e raggiunse un gruppo di coetanee esaltate.
Elio riprese a camminare, schivando i genitori inginocchiati a salutare i figli e altri coetanei che correvano elettrizzati per tutto il marciapiede esterno alla scuola ma, colto dall’ansia, esitò al limitare del cancello, finché una voce burbera non ruggì: «Allora? Entri o no, Pollo?»
Elio si voltò e si ritrovò davanti il perfido bullo delle elementari: Fabio Menti.
«Ciao» balbettò, «come stai? Passato delle buone vacanze?»
Fabio, una spanna più alto di lui, non gli rispose, ma lo spinse via come fosse un moscerino fastidioso.
Elio scivolò al suolo e picchiò il ginocchio. Sapeva che se avesse pianto sarebbe diventato lo zimbello della scuola, così strinse i denti, si rialzò e zoppicò verso l’ingresso dell’edificio.
Ai lati del piazzale di cemento, due giardini, arredati con fiori, alti castagni e piccoli cespugli, presentavano due cartelli gemelli: “Non calpestare l’erba”.
Ma come possiamo giocare lì se non possiamo calpestare l’erba?
«Poopopopo.»
Un improvviso verso di un pollo risuonò tra un gruppetto di ragazzi vicino alla larga scalinata antistante l’ingresso della scuola.
Elio sapeva bene che si stavano riferendo a lui, e per evitare ulteriori scherni, fece finta di niente, si spostò a destra e raggiunse l’atrio risalendo la rampa adibita ai disabili.
«Bravo Pollo, ecco, quello è il tuo ingresso» gridò Carlo, ex compagno di classe delle elementari. I due, insieme sin dall’asilo, erano amici prima della quarta elementare, prima dell’estate del 2006, poi anche lui aveva iniziato a prenderlo in giro
«Poopopopo.»
Questa volta Elio vide Alberto, anche lui proveniva dalla sua scuola, ma al contrario di Carlo, non aveva mai manifestato simpatia per Elio, mai, neppure all’asilo. Buffo considerato che all’asilo tutti vanno d’accordo.
«Pollo, chi ti ha vestito? Un cieco forse?» e la domanda di Alberto fomentò ancora le risate degli amici.
Elio sorrise di nuovo e salutò tutti con un gesto della mano, dopodiché proseguì per la sua strada arrivando davanti a tre porte dal montante rosso e coi vetri così puliti che poté vedere l’immagine riflessa di Alberto che mimava un pollo, ma ritrovò il sorriso in una simpatica locandina animata, affissa su una delle due porte chiuse. Raffigurava un ragazzino con corti capelli rossi, occhiali squadrati premuti sul naso a patata circondato da quattro lentiggini.
Se ne stava seduto su un banco, i piedi posati sulla sedia e dalla sua bocca spuntava un balloon fumettistico: “Se sai fare 2 + 2 e 0 x 1988,6 allora perché non partecipare al concorso di Archimede?” in basso, scritto in grassetto, “Per partecipare iscriviti al sito www.concorsoArchimede2000.org, oppure, chiedi al tuo insegnante di matematica. Al vincitore spetta una targa d’oro e un soggiorno per due persone, presso le strutture aderenti. Per info, chiamate il numero 359/8899001 o scrivete a concorsoarchimede@archimede.com.”
«Matematica? Non fa per me» commentò, deluso, prima di entrare e farsi avvolgere dal dolce profumo di libri vecchi e disinfettante.
L’ingresso era piccolo e scarno: a sinistra un banco con i volantini animati del concorso di matematica, un’alta pianta con foglie verdi e marroni a punta, delle fotografie appese alla parete di ex studenti e ritagli di giornali che parlavano della scuola e uno, ingiallito dal tempo, raffigurava due bambini identici, e sotto, scritto in grande, “Scomparsi”.
Si trattava di Massimo e Adriano Gallo, i gemelli scomparsi dalla Bortolan da più di cinquant’anni. Sara raccontava spesso di loro, diceva che erano ancora prigionieri nella scuola, e che gli insegnanti li usavano a turno per testare nuove punizioni.
Quella storia aveva spaventato molto Elio, e infastidito sia Benedetta, che le proibì di nominarli ancora, che il vecchio Gigi.
«Non si scherza con le disgrazie degli altri» le aveva detto quella sera, e Sara decise di non giocare ancora con la pazienza di suo nonno.
A destra, oltre uno spesso vetro lindo, una signora grossa con i capelli rossi, raccolti in uno chignon intrecciato alto, osservava tutti i ragazzi che tra risate e schiamazzi superavano l’ingresso. Sara aveva raccontato spesso storie sulla vecchia Fin, la bidella della scuola. Era una donna sola e arrabbiata; odiava le grida e non tollerava chi la disturbava per ragioni futili.
Dove devo andare adesso?
Il suo primo pensiero fu quello di chiedere alla vecchia, ma quando i loro sguardi si incrociarono decise di evitare di entrare subito nel famigerato Libro Nero della Fin.
«Si sa solo che chi finisce in quel libro si fa male, sparisce o muore.»
Le parole di Sara risuonavano solenni nella testa di Elio, ora più spaventato che mai. Decise così di arrangiarsi e raggiunse una locandina rosa affissa sulla parete davanti a sé.
“L’inserimento delle prime avverrà nell’aula magna.”
Elio ricordò che l’anno precedente aveva assistito al concerto di fine anno della sorella che si era tenuto proprio in quell’aula. Guardò a destra, poi a sinistra, ripetendo la cosa almeno sei volte.
Optò per il corridoio di destra, superò prima l’ufficio della Fin, chiuso da una porta rossa, poi la segreteria, da cui si potevano scorgere due giovani e indaffarate segretarie che maneggiavano plichi di fogli, fermandosi solo quando si trovò davanti a una porta chiusa, su cui una targhetta dorata recitava: “Presidenza”.
Deglutì, ripensando a quando in quarta elementare la maestra Paola l’aveva mandato dalla preside per aver gridato tre volte in un’ora che fuori dalla finestra c’era un Pappadrago, un drago piumato dai colori di un pappagallo che ripeteva ciò che dicevi.
Una porta alle sue spalle si aprì e un uomo alto e allampanato, dai corti capelli rossi, mormorò: «Ragazzo, ti sei perso?»
Elio percorse un metro del corridoio e, guardando l’uomo dal volto gentile, annuì.
«L’inserimento sta per iniziare, entra pure» riprese questo tenendo la porta aperta. Elio lo superò e lo ringraziò.
Immerso nella penombra, il ragazzo avanzò a tastoni, raggiungendo a fatica il chiacchiericcio degli studenti di prima.
Quattro file di scalinate, che fungevano da sedie, formavano un anfiteatro; di fronte, su un lungo palco, una signora bassa e grassoccia, con occhiali spessi quanto i fondi delle bottiglie di vino del nonno Gigi, soffiava su un microfono. I biondi capelli unti erano appiccicati alla fronte, tenuti insieme da una serie di forcine rosa, e la larga veste a fiori, oscillava a ogni suo movimento
«Prendete posto» gridò la donna sorridendo.
Il brusio diminuì, il piccolo Elio, solo, obbedì all’invito della donna e si sedette vicino a una ragazzina.
«Ciao», bisbigliò questa.
«Ciao», rispose lui sorridendo.
«Che hai fatto al ginocchio?» chiese lei indicando la macchia di sangue rappreso.
Elio la coprì con la mano.
«Nulla, sono scivolato» mentì.
Non aveva mai voluto dire a nessuno che subiva continui scherni dai suoi compagni, neppure a sua madre.
«Tu hai un cognome?» domandò la ragazza, gli occhi elettrizzati. «Io sì, ed è…» ma non riuscì a pronunciarlo perché la direttrice prese la parola.
«Benvenuti a tutti voi. Io sono Francesca Franchini, preside della scuola. Il mio ufficio è dopo la segreteria, se avete bisogno, per qualsiasi cosa, chiedete di me alla signora Fin, la nostra bidella.»
Elio rabbrividì, sia al pensiero di parlare con la preside, che all’idea di chiedere qualcosa alla vecchia bidella.
«La scuola secondaria è il ponte che collega l'infanzia all'adolescenza, un ponte che, se non solidificato, rischia di crollare e farvi cadere nel vuoto. Il mio compito è quello di aiutarvi a rinforzare questo ponte, e il vostro, è quello di camminarci sopra, fidandovi di me e dell’intero corpo insegnanti. Sappiate che tutti noi vogliamo solo il vostro bene, se credete che qualcuno agisca contro i vostri interessi, venite a dirmelo.»
«Quante sciocchezze…» commentò un ragazzo nella fila dietro a Elio.
«Dopo questa premessa, vi annuncio che viste le numerose iscrizioni, abbiamo dovuto aggiungere una sezione, quindi, quest’anno le sezioni saranno quattro: A, B, C e D. Siete in ottantotto, perciò formeremo quattro classi da ventidue alunni. Ora, iniziando dalla sezione D, chiamerò i vostri nomi e voi verrete qui.»
Elio impallidì. Non sopportava di restare sotto lo sguardo di tutti, e andare sopra un palco davanti ai suoi ex compagni di classe significava solo nuove beffe.
«Marco Ambrosini» iniziò la preside. «Alessandro Barbieri.»
Il ragazzo che aveva commentato si alzò e andò verso la donna.
«Luca Bressan.»
Un terzo ragazzo si alzò e si avviò verso il palco.
«Samanta Cannavò.»
«Alberto Conte.»
Quando la preside lo chiamò, Alberto si alzò come fosse un eroe, e dopo aver dato il cinque al suo amico, corse dalla preside, la quale, senza attendere il suo arrivo, chiamò: «Carlo Cortese».
Quando l’amico raggiunse Alberto, i due si abbracciarono trionfanti.
Spero di non finire in quella classe, pensò Elio guardandoli.
La preside proseguì, chiamando i ragazzi finché, non arrivò alla “M”.
«Viola Magister.»
Ad alzarsi fu proprio la ragazza dai rossi capelli seduta al suo fianco che, con fare buffo, gli sorrise e andò di tutta fretta verso il palco.
Magister, che cognome strano.
Nel palco ora c’erano ventun persone, il che significava che ne mancava ancora uno.
«Elio Ricci.»
Ecco la mia solita fortuna. Pensò.
Il cuore di Elio sussultò, come se avesse appena percorso un sottopassaggio ai cento chilometri orari. Si alzò e, senza indugiare oltre, si avviò verso la direttrice.
«Poopopopo.»
«Silenzio» ordinò la preside in tono grave.
A pochi passi dalla donna, Elio vide che era ancora più bassa di quanto pensasse, e molto più grassa, ed emanava un odore pungente di minestrone.
«Molto bene, potete seguire la professoressa Soave, la vostra coordinatrice.»
Una donna alta e magra, e dall’aria severa, apparve dall’ombra, facendo sussultare qualche studente.
Indossava una lunga gonna nera e una camicia rosa. I capelli a caschetto erano biondo cenere e gli occhi azzurri erano freddi come il ghiaccio.
«Seguitemi» ordinò, la voce che rispecchiava il suo sguardo.
Senza aspettare che tutte le classi fossero formate, la professoressa Soave portò fuori dall’aula magna la prima D.
Svoltarono a destra, e tra chiacchiericci e risatine, risalirono due rampe di scale di marmo bianco.
Arrivati al secondo piano, la professoressa svoltò ancora a destra e proseguì nel corridoio superando alcune classi con la porta aperta, Elio sentì alcuni ragazzi di terza raccontare le loro vacanze estive.
La donna si bloccò di fronte alla quinta aula, contraddistinta da un cartello bianco: “1a D.”
«Coraggio, entrate e prendete posto senza perder tempo» intimò loro con voce inflessibile.
Gli studenti iniziarono a occupare i vari banchi, ed Elio scelse quello in seconda fila, sotto alla finestra che dava sul parco giochi che aveva visto prima.
«Ehi, Pollo, contento di essere nella nostra classe?» chiese Alberto, sedendosi al fianco di Carlo, proprio dietro di lui.
Elio, distratto da un gatto randagio che risaliva un albero, non sentì il commento infelice, ma udì tuttavia, la voce argentina di una ragazza: «Posso sedermi?»
«Oh, certo» rispose lui guardando la fanciulla dell’aula magna.
«Io sono Viola Magister, e tu come ti chiami?» domandò, posando a terra il suo zaino blu.
«Elio» rispose lui porgendole la mano.
Viola guardò meravigliata la mano di Elio, e dopo una risata isterica, la colpì con la sua.
«Oh, Pollo, vedo che ti sei fatto un’amichetta» sputò acido Alberto. «Non vorrei sbagliarmi, ma credo che, per quanto questo fiammifero possa essere strana, il perdente della classe resti tu» concluse esplodendo in una sonora risata.
«Siete pregati di fare silenzio» ordinò a denti stretti l’insegnante, in piedi sopra un soppalco che si affacciava sul resto della classe.
«Io sono la professoressa Soave, vi insegnerò italiano, storia e geografia. Sono poco tollerante ai brusii e intransigente con gli scansafatiche. Se vi do da fare dei compiti, mi aspetto che voi li facciate. Se vi dico di studiare e vedo che non sapete nulla, mi costringete a darvi un’insufficienza e una nota, quindi a perdere il doppio del tempo. Se avete bisogno o non capite qualche argomento, vi consiglio di approfittare delle nostre lezioni, in quanto saranno suddivise in quarantacinque minuti di spiegazione e quindici minuti di chiarimenti. Non abbiate paura di chiedere, temete invece di non sapere quando chiederò» concluse solenne.
«Capito, Pollo?»
La professoressa non sentì la voce di Alberto e quindi proseguì.
«Ora vi chiedo di presentarvi, vi basterà dirmi il nome, il cognome e i vostri hobby, inizia tu» e indicò una ragazza nel banco davanti a quello di Elio.
«Mi chiamo Stefania Nicolin» disse questa alzandosi in piedi, «e il mio hobby è la ginnastica artistica.»
«Bene, siediti pure. Ora tu» e fece un cenno alla ragazza di fianco.
«Mi chiamo Elena Pedrazzoli, e come lei faccio ginnastica artistica» concluse ridacchiando con l’amica.
Il cuore di Elio iniziò a battere forte.
«Dai, proseguite.»
«Mi chiamo Elio Ricci, e la mia passione è quella di inventare storie.»
Pronunciò quelle parole con tale rapidità che la professoressa ci mise un po’ a capire, e quando lo fece, aguzzò gli occhi curiosa.
«In che senso inventi storie?» domandò ignorando la risatina di Carlo.
Elio si sentì sprofondare, avrebbe voluto dire solo quelle tre cose, come tutti gli altri.
«Beh, nel senso che io invento storie, per gioco. Invento animali, ambientazioni e persone.»
«Ma le scrivi anche?» chiese, senza vedere Alberto pestare lo zaino di Elio.
«No, le racconto e basta.»
La professoressa indugiò su di lui per qualche istante, poi guardò Viola. Mentre ascoltava la sua compagna di banco, a Elio parve di vedere un accenno di sorriso sul volto ceramico della professoressa.
«Mi chiamo Viola Magister e mi sono trasferita qui da poco. La mia passione è quella di guardare la mia mamma mentre cucina.»
Tra le presentazioni, e un piccolo riassunto di quello che sarebbe stato l’anno scolastico, la giornata si concluse.
Al suono della campana la classe si disperse, con l’eccezione di Elio. Lui restò seduto, senza capire cosa stesse succedendo, e non vedendo via di uscita, si alzò e andò dall’insegnante.
«Mi scusi professoressa, ma dove si va ora?»
«A casa, Ricci, oggi le lezioni terminano alle dieci. I genitori sono stati avvertiti la settimana scorsa durante l’incontro genitori-insegnanti.»
Elio non sapeva cosa dire. Sua mamma si era dimenticata di andare all’incontro, e nessuno della sua famiglia sapeva che avrebbe finito prima.
«Ah sì, giusto» mentì.
Tornò al suo posto, raccolse il suo zaino, lo ripulì dagli stampi delle scarpe di Alberto e uscì, seguendo la mandria urlante.
I corridoi erano colmi di ragazzi che si salutavano e si raccontavano le avventure estive.
«Io sono stato dieci giorni al campeggio della mia parrocchia. Abbiamo fatto camminate lunghissime e giocato tanto. Una notte abbiamo fatto la veglia al fuoco e gli animatori si sono ubriacati, è stato divertentissimo» raccontò Stefano, uno degli ex compagni di Elio.
Benedetta aveva insistito tanto quell’estate per farlo andare in campeggio con i suoi amici, ma il ragazzo si era sempre rifiutato, rifilando la scusa che odiava dormire in tenda e camminare in mezzo ai boschi. La verità era che Elio non voleva far sapere alla madre che non aveva amici. Quando si proponeva di organizzargli una festa di compleanno, lui le diceva che non voleva festeggiare perché si sentiva a disagio nello stare al centro dell’attenzione.
«Ciao Stefano, in che sezione sei?»
Il ragazzo, accorgendosi che le gemelle Viale lo stavano guardando, si spettinò i capelli scuri e imitò con un gesto delle braccia una gallina che tentava il volo, seguito da un sonoro: «Poopopo».
Elio ne rimase sorpreso, Stefano era uno dei pochi a trattarlo bene, forse voleva solo farsi vedere dalle ragazze e i nuovi compagni di classe, ciò nonostante, si sentì un improvviso morso al cuore che risalì fino alla gola.
Senza indugiare oltre, sforzandosi di non piangere, Elio oltrepassò il gruppetto e percorse la scalinata fino a raggiungere il piano terra.
L’ingresso era un cumulo di schiamazzanti ragazzi. Vide la vecchia Fin, con il naso premuto contro il vetro appannato e gli occhi sempre più tirati, lividi di rabbia.
Elio evitò di passare tra la folla e spinse con forza la maniglia antipanico della porta chiusa.
Una sirena scattò e la massa esagitata iniziò a disperdersi nel piccolo ingresso.
La porta rossa della bidella si spalancò con un fragoroso botto e la Fin, il viso paonazzo, gridò: «Chi è stato?»
La frase echeggiò nel piccolo antro. Elio, bocca e occhi sbarrati, la mano ancora stretta intorno alla maniglia, non si mosse. La donna marciò, lenta, distendendo le piccole e tozze gambe impedite dalla stretta gonna di flanella, ondeggiando e ringhiando come un vecchio bulldog.
I più fortunati riuscirono a scansarsi in tempo, altri invece furono urtati via, spinti contro il banco dell’ingresso facendo cadere a terra tutte le locandine bianche del concorso Archimede.
«Dai, scappa!»
Elio si guardò intorno: i ragazzi fuggivano schiamazzando, la vecchia bidella, ora il viso violaceo, in tinta col maglione di lana sgualcita, era sempre più vicina. Poteva vedere il contorno delle labbra tatuate e le sopracciglia disegnate.
«Qui» strillò il ragazzo lentigginoso della locandina, ora salito in piedi sul traballante banco.
Elio guardò esterrefatto il foglio, incapace di capire se la sua fantasia avesse raggiunto un livello maggiore o se lo stress, provocato dalla giornata, l’avesse fatto impazzire.
«Muoviti» lo avvertì lo stesso disegno da una seconda locandina.
«Hanno ragione, devi scappare» aggiunse un terzo.
Elio, per rendere più agile la fuga, strinse le spalline dello zaino, incollandolo alla schiena inumidita di sudore. Nel frattempo, il sonoro suono della sirena aveva attirato l’attenzione di molti insegnanti, compresa la professoressa Soave che intimava ai ragazzi di ripristinare l’ordine.
Superata la porta, Elio corse veloce fuori dal cancello, mescolandosi tra i genitori che sbirciavano l’ingresso della scuola.
«Direi che non è andata male come primo giorno» disse guardandosi alle spalle.
Sopra la larga scalinata, lo sguardo penetrante della vecchia bidella scrutava la folla di genitori, cercando di individuare il teppista. Il piccolo Elio ancora non lo sapeva, ma il suo nome, ancora sconosciuto alla donna, era finito nel libro nero della Fin.