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CAPITOLO I

Aggiornamento: 4 set

«È tempo, Seth»


 
 

«Devo muovermi, devo arrivare prima di Tom o dovrò pa­gare ancora io.»

Stavo marciando a passo spedito quando una leggera brezza fresca, che portava con sé l’odore del fieno delle fattorie vicine, penetrò la sottile stoffa della mia tunica fa­cendomi risalire un brivido lungo la schiena.

I fili d’erba verdi della radura e le foglie delle grandi querce che costeggiavano le rive del lago danza­vano al ritmo del vento, un vento che celebrava l’arrivo dell’autunno.

Mi fermai per qualche istante a osservare il meraviglioso paesaggio. La luna, sorta da poche ore, era uno squarcio nell’infinito cielo, trapuntato di stelle, che si rispecchiava nel lago dal quale prendeva il nome il mio villaggio: Ar­gento.

Era un lago meraviglioso con rocce bianche come l’avorio e una piccola cascata che lo rendeva più simile a un fiume di montagna che a un semplice lago. Questa sua caratteri­stica incuriosiva molti abitanti dei villaggi limitrofi, spingendoli a visitarlo; nelle stagioni più calde, i pa­dri allestivano campeggi con i propri figli, passando gior­nate a cacciare e a pescare.

Sollevai lo sguardo al cielo, tornando a osservare le stelle, e in un lampo la mia testa iniziò a vagare nel passato, ri­portandomi con la memoria a una sera di primavera.

“Quelle, quelle stelle sembrano il cane di Gastone”, disse mio fratello Luke indicando un piccolo agglomerato lumi­noso.

“Quelle lì invece hanno la forma di un’aquila”, indicai. “Mentre quelle ricordano uno scudo”, continuò Tom ri­dendo.

«Tom!» gridai al vento.

Aumentai il passo per recuperare il tempo perso e, guidato dall’echeggiare delle grida degli avventori che popolavano la locanda, mi ritrovai di fronte la cinta di legno che circoscriveva il mio villaggio.

Argento era un piccolo villaggio del regno di Asli, uno dei Quattro Regni delle terre conosciute. Situato su un’ampia collina, circondata da sconfinati vigneti, era noto come il maggior produttore di vino e formaggio di tutto il regno, e per questo era considerato uno dei villaggi più im­portanti di Asli. Era popolato per lo più da fattori, compreso mio padre Luis.

Superai la cinta e camminai attraverso le case e le botteghe, chiuse da poco, sino a raggiungere l’unica attività ancora illuminata. La porta di legno chiusa, da cui spiccava l’in­cisione Da Jakob, era l’unica cosa che mi divideva dal buon sidro che tanto avevo sognato quel giorno. Quella be­vanda era una delle cose che più amavo, uno dei pochi vizi che riusciva a farmi sentire quello che ero: un ragazzo di soli quindici anni. Ero giovane, per frequentare un posto come quello, ma purtroppo non c’erano altri luoghi nel vil­laggio dove potermi ritrovare con il mio amico.

Quando spinsi il pesante asse, venni pervaso da una ma­leodorante fragranza di birra, vomito e un inconfondibile odore di legno impregnato di vino. Era nauseante ma, no­nostante tutto, era bello recarsi alla locanda e vedere gli abitanti del villaggio ridere e ballare dopo una giornata passata a lavorare nei campi.

Le piccole candele consunte, che illuminavano la locanda, riflettevano le ombre barcollanti degli avventori che con­sumavano birra di malto, la specialità di Jakob, e vino rosso dall’inconfondibile profumo di bosco.

Scavalcai tre corpi privi di senso che, incuranti delle pe­date dei passanti, dormivano su un pavi­mento lercio e appiccicoso, e raggiunsi il largo bancone bianco su cui, oltre una fila di boccali, un grande uomo strofinava le stoviglie con uno straccio di dubbia prove­nienza; per quanto ne sapevo, poteva essere un pezzo di veste strappato a qualche ubriacone. «Jakob, avete visto…»

Una voce allegra mi bloccò, co­stringendomi a voltarmi.

«Eccoti, Seth.»

Da uno dei tavoli sotto le finestre, il mio amico mi faceva cenno con la mano di raggiungerlo.

Tom, un ragazzo magrolino con folti capelli corvini e un largo sorriso sornione, sembrava divertito nel vedermi in difficoltà mentre oltrepassavo i corpi degli ubriaconi ad­dormentati a terra.

Non ricordo quando io e lui ci siamo conosciuti, non ram­mento quando siamo diventati amici, ma ciò che so è che Tom è sempre stato presente nei momenti più difficili della mia vita. Anche se all’epoca non potevo immagi­nare che di lì a poco le difficoltà quotidiane mi sarebbero apparse delle sciocchezze, e che presto sarei giunto a rim­piangere i duri scontri con mio padre.

«Maledizione, sei arrivato prima di me», mormorai, rasse­gnato. «Due sidri, buon uomo», ordinai rivolgendomi al lo­candiere, mentre mi accasciavo sulla panca di legno ac­canto al mio amico.

«Eh, ti tocca pagare!» D’un tratto, il suo sorriso si spense. «Non ti dà tregua, eh?»

«Giuro che un giorno di questi me ne vado, prendo i miei fratelli e li porto via da quella maledetta fattoria!» annun­ciai con fervore sbattendo un pugno sul tavolo. Nel frat­tempo, il locandiere era arrivato davanti al nostro tavolo con due boccali colmi di sidro.

«Ecco, ragazzi.»

«Grazie, Jakob.»

In quel momento, un passante mi urtò, facendomi rove­sciare buona parte del contenuto sulla tunica lavata di fre­sco. «Ehi, attento, idiota!» esclamai alzandomi di scatto e guar­dandolo in cagnesco, incurante del fatto che fosse il

doppio di me.

Tom mi osservò, attento, forse preoccupato per la reazione che potevo aver innescato nell’uomo, ma quello era già passato oltre senza prestarmi la minima attenzione.

Mi rimisi seduto, quasi deluso di essere appena scampato a un occhio nero, e ripresi il mio sfogo.

«Mio padre la deve smettere di trattarci come schiavi! Dodici ore di lavoro al giorno e neanche una parola di ringraziamento. Gli unici spicci che ho in tasca li devo al vecchio Clayton. Potare quella vecchia quercia mi ha fruttato più di quanto pensassi!» conclusi con finta allegria, tirando fuori dalla tasca qualche moneta per il locandiere.

Attendendo un resto di pochi spiccioli, il mio sguardo si perse fuori dalla finestra, e il pensiero andò a mia madre. Quando lei era al mondo, le cose an­davano in modo diverso, e anche se non eravamo mai stati ricchi, eravamo felici. Ma quando la ma­lattia ce la portò via, portò con sé anche quella serenità. Era lei che ci teneva uniti, e dopo la sua morte mio padre sembrò non riuscire più a provare affetto per nessuno. Da come si comportava, sembrava che l’unica cosa che gli fosse rimasto era il suo lavoro, e sembrava non rendersi conto che, se lui aveva perso una moglie, noi avevamo perso una madre. Il suo egoismo, la sua poca empatia mi avevano spinto quasi a odiarlo.

Per alleggerire il carico di lavoro dei miei fratelli, ancora troppo piccoli per sacrificare le loro giornate e la loro fan­ciullezza dietro a una vanga, lavoravo nei campi dall’alba all’imbrunire; altro non potevo fare, per onorare la memo­ria di mia madre, che prendermi cura come potevo dei suoi adorati bambini.

Una risata spontanea e contagiosa mi riscosse dai miei pensieri. Era Bianca, la figlia del locandiere, che costituiva il motivo principale per cui io e Tom andavamo in quella locanda quasi tutte le sere.

I capelli del colore del grano le cadevano, mossi, sopra due spalle nude; gli occhi, della stessa sfumatura verde-az­zurra del lago Argento, vibravano di gioia, ma mai quanto quelli del mio amico. Tom era innamorato di Bianca sin da bambino, ma lei mai prima di allora sembrava essersi ac­corta della nostra esistenza. Così decisi di fare qualcosa per aiutarlo. «Buonasera, Bianca, volete unirvi a noi?»

«Perché no!» disse con allegria, e prese posto accanto a noi.

Io e Tom ci scambiammo uno sguardo carico di sorpresa e pura estasi. Gli feci cenno con la testa, invitandolo in silen­zio a dire qualcosa, ma solo quando gli sferrai un calcio si decise a parlare.

«Ahi!»

«Come?» domandò Bianca, distratta, regalando così una seconda opportunità a Tom che decise di non sprecare.

«Ehm,» balbettò, «gradite un sidro?»

«Un sidro? Avete ancora dodici anni?» domandò divertita. Si voltò, chiamò suo padre e ordinò: «Per me un boccale di birra!».

Jakob levò gli occhi al cielo ma non obiettò.

«Anche per me!» esclamai subito io d’impulso.

Non avevo mai bevuto una birra, l’alito mefitico degli av­ventori del locale mi aveva sempre distolto dall’idea, ma quella sembrava proprio la serata delle “prime volte”, e non potevo certo permettere che Bianca pensasse che fossimo due ragazzini.

«Facciamo tre boccali di birra, allora», esclamò Tom, de­ciso.

«A noi!» brindammo poco dopo, sollevando i bicchieri e bevendo da essi una generosa sorsata.

Il gusto amaro della birra calda mi fece risalire un conato ma, per evitare una figuraccia davanti all’intero villaggio, deglutii e continuai a bere nascondendo il disgusto.

«Siete raggiante, questa sera», mormorò Tom, violaceo in volto.

Bianca sorrise ma, prima che potesse rispondere, una nuova musica inondò la locanda.

Un gruppo di uomini intonò delle melodie allegre e fe­stose, accompagnandosi con flauti e strumenti a corde. Le donne ballavano tenendo sollevate le lunghe gonne, in­citate a gran voce dagli uomini che pestavano i piedi e bat­tevano le mani sui tavoli a tempo di musica.

Bianca, alzatasi dal nostro tavolo senza dire nulla, spic­cava tra le altre per la sua bellezza ed eleganza, e volteg­giava in modo così aggraziato che sembrava volare, con gli occhi che brillavano come quelle stelle che tanto amavo.

«Seth, un giorno io la sposerò», ammise Tom, serio.

Io lo guardai, gli diedi un colpo sulla spalla e risposi: «Sarà così, amico mio».

Ci alzammo per accompagnare le donne con applausi a tempo di musica, afferrai il mio boccale e, deciso a finire la tortura, consumai l’intera birra con una sorsata. Pessima idea.

Non finì nemmeno la prima canzone, che la stanza prese a girare, e un nuovo conato acido mi lacerò la gola.

«Tom,» biascicai, «non mi sento molto bene, me ne vado a letto.» E barcollando, senza aspettare una sua risposta, cercai di raggiungere la porta della locanda.

«Seth, mi sembri il vecchio Alec.»

Uscito, respirai a pieni polmoni per bloccare la sensazione di vertigine e mi incamminai, a ritroso, verso la foresta.

Avrei potuto prendere il sentiero battuto, quello che pas­sava davanti alla fattoria di Tom – meno buio e meno pericoloso – ma volevo passeggiare tra gli alberi che tanto amavo.

Camminai, cercando di mantenere l’equilibrio, ma caddi a terra un paio di volte, inciampando sulle mie stesse gambe. Era una cosa imbarazzante.

Al mio rientro alla fattoria dormivano tutti, si udivano solo il frinire dei grilli e il russare profondo di mio padre e mio fratello. Aprii la cigolante porta di casa muoven­domi il più silenziosamente possibile per evitare di sve­gliare la mia famiglia. In realtà lo facevo per mio padre: aveva l’abitudine di punire chi lo svegliava prima del canto del gallo, oltre al fatto che non sarebbe stato affatto contento di sapere che ero stato alla locanda come i “perdigiorno”, come li chiamava lui, e per di più ubriaco.

Chiusi la porta, mi recai nella mia stanza e mi sdraiai sul letto. Appena posai lo sguardo sulla finestra, però, sussultai: le ante erano aperte, seduto sul cornicione c’era Tom, il mio amico, e fissava il cielo.

«Tom? Sei tu? Che ci fai qui?» chiesi saltando in piedi. «È tempo, Seth. È tempo.»

La sua voce era profonda, come se provenisse da una ca­verna.

«Devi essere pronto, Seth», riprese puntando l’indice verso il cielo. «È tempo.»

Feci un passo nella sua direzione, l’asse sotto di me scricchiolò; quando il mio amico si voltò, io mi ritrovai a fissare due profonde pupille scarlatte.

D’improvviso, l’intera stanza s’incendiò di una luce così rossa che pareva ardere di energia. Un boato echeggiò sino al limitare del regno. Poi il silenzio. Lontano, come un sussurro trascinato da un vento tiepido, quella voce ripeté: «È tempo, Seth.»



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