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ELFI AL TEMPO DEL COVID



«Dai, cammina scansafatiche.»

Il mio amico Khiimrii era parecchi passi davanti a me e la sua voce era poco più che un flebile sussurro disperso tra i pini del bosco di Fanes.

A quei tempi noi elfi vivevamo rintanati in un piccolo villaggio nel cuore di quel bosco, lontani dagli occhi indiscreti degli uomini, e soprattutto dalle loro macchine scintillanti che strappavano dalla terra tutti gli splendidi alberi di Fanes.

Ricordo bene la voce di mio padre che ci ordinava di nasconderci quando quei giganti si avvicinavano al nostro villaggio, e che risate nel vederlo aggirarsi guardingo nella piccola piazza di Delfty.

In quei giorni, però, sembrava che gli umani si fossero estinti.

Ovviamente non era così; in realtà si erano rintanati nelle loro dimore colorate e sembravano aver deciso di lasciar in pace la povera e indifesa natura. Da ingenuo, pensavo fossero andati in letargo.

Per quello io e Khiimrii quella mattina decidemmo di fare una gita fuori porta.

«Aspe... aspettami.» ansimai, ma non lo fece, e dopo uno scatto in discesa Khiimrii raggiunse per primo le magnifiche sponde di Braies, lo splendido lago smeraldino ai piedi delle Dolomiti di Sesto.

«Greedens, qui andrà benissimo» gridò, fermandosi all’ombra di una grossa pietra.

Discesi l’ultimo tratto aiutato dalla canna da pesca di bambù, che usai come fosse un bastone. Rischiai di inciampare almeno tre volte a causa di uno scoordinamento innato, la mia maledizione, ma alla fine riuscii a raggiungere il mio amico intatto.

«Beh, certo che potevi anche andare più piano!» esclamai infastidito, ma non riuscii a nasconder un sorriso; era la prima volta che vedevo quelle sponde baciate dalla calda luce del sole.

Guardai il cielo senza levare il capo, perfettamente riflesso su quelle acque piatte.

«Voglio pescare il vecchio Finfin!» disse Khiimrii infilzando un verme con l’amo.

“Sì, e io un Ippoceronte squamato.”

Finfin era un leggendario luccio che regnava nel lago di Braies, lungo quanto un batell; grosso quanto il tronco della mia casa. Tuttavia non lo demoralizzai, e dopo aver infilzato il piccolo verme biancastro, lanciai l’amo a qualche metro da me, osservando il piccolo insetto affondare.

«Greedens, perché secondo te gli umani si sono rintanati nelle loro case?»

Khiimrii era steso con la schiena posata contro la roccia. Io ero seduto, attento alla canna da pesca e ai movimenti dell’acqua.

«E che ne so? Forse hanno capito che non devono distruggere la natura e…»

«Bla, bla, bla! Hai sempre nutrito troppa speranza verso quei… com’è che li chiama tuo padre?» domandò, ammiccando un sorriso sornione.

«Pestiterrata!» esclamai muovendo la canna. Lo feci senza un motivo particolare, forse ero un po’ infastidito da quel commento.

«Ah! Sì, Pestiterrata.» disse ridendo. «Adoro tuo padre, è geniale.» concluse colpendo coi pugni l’erba umida.

“Pagliaccio…” pensai, e senza più parlare restammo sulla sponda del lago sino a che metà sole sparì oltre le alte montagne e la tiepida aria primaverile diventò frizzantina.

Khiimrii ovviamente non riuscì a pescare Finfin, ma catturò comunque sei grosse carpe, cinque in più di me.

«Mi sa che non mangerai molto con quella» mi schernì. «Dai, prendine due delle mie» continuò infilando due pesci dentro la mia sacca.

«Grazie, Khiimrii!»


Stavamo camminando per rientrare al villaggio di Delfty quando, da un cespuglio vicino, udimmo un rumore di rami che si spezzavano.

Sussultai, e un brivido più freddo dell’aria mi irrigidì dalla testa ai piedi. Il cuore scivolò rapido verso il fondo dello stomaco e mi sentii come se avessi mangiato una manciata di quelle bacche che non si dovrebbero mangiare perché, come diceva mia madre, fanno venire la “cosa molla”.

«Cos’è stato?» chiesi stringendo la canna da pesca più forte che potevo, pronto a colpire. Ma la verità è che da fanciullo ero un gran fifone e non sarei riuscito a colpire un bel nulla.

Khiimrii, d’altro canto, era molto più coraggioso di me, e senza indugiare, trapassò il fitto cespo per vedere cosa fosse. Sparì per diversi istanti e tremai nuovamente quando gridò: «Preso!»

Khiimrii uscì tenendo per le vesti una creatura alta un paio di spanne più di lui, ma molto più grossa.

Sembrava una mia copia in grande, come se qualcuno si fosse divertito a strecciare un elfo. Stessi occhi, stesse orecchie. Persino gli abiti erano molto simili.

Era la prima volta che vedevo un umano così da vicino e ad essere sinceri, credevo fossero più spaventosi. Sembrava più che altro un cucciolo e quando parlò, capii che era così.

«Lasciami, ti prego lasciami» frignò il cucciolo, ma Khiimrii sembrò non voler cedere alla sua supplica.

«E tu chi sei?» domandò il mio amico strattonandolo.

L’umano si asciugò lacrime e naso con la manica della maglietta e senza smettere di singhiozzare, biascicò:

«Sono... Luca… il mio nome… è Luca.»

Provai una gran pena per lui.

«Greedens, dovremmo portarlo da Azziithe, lui saprà cosa fare» suggerì Khiimrii.

Non risposi subito. Per un istante pensai a cosa avrei provato io se mi fossi trovato nella sua situazione e improvvisamente, lo stomacò tornò a lanciare segnali inequivocabili.

Guardai i piccoli occhi azzurri del cucciolo e senza remore, dissi: «Lasciamolo andare. Non vedi che è spaventato?»

Il mio amico mi guardò stranito.

«Greedens, se dovesse raccontare alla sua gente di noi, tutto il nostro popolo sarebbe in pericolo.»

«Non dirò nulla, lo giuro!» sostenne Luca interrompendo Khiimrii che, per la prima volta da che era apparso il piccolo umano, mostrò un briciolo di pietà.

Sospirò, come in preda a una crisi interiore, gli occhi assenti e la mascella serrata.

«Ti lasceremo andare, ma se qualcuno verrà a cercarci, verremo a prenderti e ti tramuteremo in pietra!» aggiunse con foga.

Io riuscii a trattenere a fatica un sorriso, in fondo gli Elfi non possono fare una cosa simile.

«No no, ve lo giuro, non parlerò!»

Khiimrii mi guardò non del tutto convinto, ma dopo un mio cenno, ammorbidì la presa della mano, lasciando il lembo di maglia del piccolo.

Ricordo ancora lo stupore che provai nel vedere la corsa che fece Luca; un cerbiatto a due zampe.

«E se dovesse tornare?» chiese senza staccare lo sguardo dal giovane che stava scendendo il bosco con un ritmo impressionante.

«Non tornerà... l’hai spaventato a morte!» dissi ridendo.


Al rientro, mio padre stava cucinando della carne, mentre mia madre stava stappando una bottiglia di Lin, una bevanda alcolica che produceva lei stessa distillando i gusci delle lumache.

«Finalmente!» esclamò vedendomi. «Khiimrii, ti fermi a cena?» chiese al mio amico.

«Grazie Khimoiy, ma mia madre mi sta aspettando. Ciao Greedens, ci vediamo domani. Buona cena a tutti» concluse uscendo.

Andai in cucina a posare il pesce dentro al lavello; i miei fratelli minori, Nicola e Fabio, stavano aiutando mio padre.

«Tre pesci? E chi mangia con tre pesci?» disse Fabio canzonandomi.

“Se solo sapessero che se non fosse stato per Khiimrii ne avrei portato a casa solo uno…” evitai di rispondere.

Andai di corsa in camera mia, mi svestii gettando gli abiti sporchi per tutta la stanza e andai a godermi una rigenerante doccia calda.

“Povero ragazzo”. Gli occhi inzuppati di lacrime del giovane non volevano abbandonare la mia testa.

«Greedens, è pronto!» gridò mia madre da piano di sotto.

Arrivai in cucina dopo cinque minuti.

«Fai con calma, eh!» mi ammonì mio padre mentre condiva l’insalata. Presi posto alla sinistra di mia madre, afferrai una succulenta bistecca alle radici di girasole e…

Baam.

D’un tratto, un rumore fortissimo mise tutti in allerta.

Mia madre mi strinse; mio padre rovesciò la sedia colto da un improvviso furore e i miei fratelli, leoni da divano, si nascosero dietro di lui.

«Veender, cos’è stato?» chiese mia madre.

Lui non ripose, afferrò il suo bastone e col fuoco negli occhi uscì. Noi, forse incautamente, lo seguimmo.

La piazza stipata era un brusio allertato, e in molti indicavano un punto oltre il villaggio.

Mi voltai e improvvisamente, mi sentii cedere le gambe. Il mormorio fu sovrastato dalla voce di mio padre che, davanti a noi, gridò:

«I Pestiterrata! Ora li sistemo io quei…» ma non finì la frase. Forse stava per dire una di quelle parole che mia madre gli aveva proibito di pronunciare davanti a me.

Gli umani ci avevano trovati e la colpa era solo mia.

Erano in quattro, tutti armati di bastoni e strani oggetti luminosi che puntavano proprio le nostre case di corteccia, riportando il giorno nel nostro villaggio.

Sembravano perplessi quanto noi e a bassa voce, mormoravano:

«Non può essere!»

«Quindi aveva ragione.»

«Elfi?»

Tra loro riconobbi Luca, il giovane che avevamo lasciato andare poche ore prima, ma questa volta aveva qualcosa di diverso: naso e bocca erano coperti da una specie di stoffa azzurrina, esattamente come quelle del resto del gruppo.

Uno di loro si avvicinò lasciandosi i suoi alle spalle.

Era mastodontico.

“Ora capisco perché tutti li temono” pensai, lo stomaco che non mi lasciava tregua. Luca era alto neanche la metà di loro, forse per quello non mi intimoriva.

L’uomo s’inginocchiò posando le mani a terra e, con una voce profonda e al contempo implorante, chiese: «Vi prego, non vogliamo farvi del male. Mia moglie è malata, la nostra medicina non ha trovato una cura, ed io sono disperato.»

Stavo stringendo il braccio di mia madre, protetto dalla sua schiena quando Azziithe, il capo anziano del nostro villaggio si fece avanti.

Camminò lento aiutato dal suo antico bastone di platano, la barba argentea illuminata da quelle strani armi.

Si fermò quando raggiunse l’uomo chino, si grattò la pelata e domandò in tono aureo: «Figliolo, ti sei recato da noi armato e accompagnato dal tuo branco. Come mai? Forse era tua intenzione attaccarci se non avessimo accettato di aiutarti?»

L’uomo levò il grosso capo mostrando due occhi macchiati dalla disperazione e un grosso naso bordeaux.

«Noi…» mormorò, «io non sapevo cosa avrei trovato. Mio figlio Luca,» e indicò il piccolo cucciolo impaurito, «mi ha raccontato di essersi imbattuto in due di voi.»

Istintivamente mi voltai e fissai spaventato Khiimrii, anche lui protetto dal corpo di sua mamma.

«È solo un bambino e si sa, per loro fantasia e realtà sono la stessa cosa. Ma poi, vedendo la sua disperazione davanti ai miei continui rimproveri, e forse spinto dalla speranza di una possibile cura, ho deciso di credergli. Loro,» indicò i due umani più alti alle sue spalle, «sono i fratelli di mia moglie, non sono una minaccia.» concluse singhiozzando.

Azziithe mugugnò prima di rispondere, lo faceva sempre quando non sapeva cosa fare.

«Per secoli ho assistito alla rovina di queste terre. Avete distrutto foreste in pochi giorni rendendo l’aria irrespirabile. Da quando vi siete rintanati nelle vostre case la natura è tornata a risplendere, l’aria è più pulita, l’acqua del lago è di nuovo cristallina, e noi siamo più felici. Il mio potere può aiutarvi, ma ora un dilemma sorge spontaneo: chi salvare, voi o il pianeta?»

Azziithe aveva ragione.

L’uomo iniziò a singhiozzare, esattamente come suo figlio poche ore prima.

Passarono una manciata di secondi quando il piccolo Luca si avvicinò al padre per aiutarlo a rialzarsi.

«Papà, torniamo a casa? Lui ha ragione, noi siamo stati cattivi con la natura. Quando non mi comporto bene, tu e mamma mi punite, ed è giusto che la natura punisca noi.»

La voce tremolante di quel giovane mi fece smuovere qualcosa dentro e, lasciando il braccio di mia madre, strattonai le vesti del nostro capo villaggio.

«Azziithe,» intervenni, «gli uomini hanno sbagliato per molti anni, ma credo che abbiano diritto ad un’altra possibilità!» esclamai davanti a quella scena straziante.

Ora tutti gli occhi erano rivolti verso di me. Mio padre cercò di tapparmi la bocca, ovviamente non ci riuscì.

Gli uomini, scoraggiati, stavano lasciando il bosco quando Azziithe sospirò, posò le mani a terra e iniziò a bisbigliare qualcosa in una lingua che non conoscevo.

«che il potere della natura consumi il vostro male!»

«È Elfico antico» disse mia madre accarezzandomi la testa, accortasi della mia espressione vacua.

«che il potere della natura consumi il vostro male!»

Gli aghi dei pini iniziarono a vibrare; i piccoli passeri si svegliarono e cinguettarono un canto ultraterreno, illuminati da una strana luce celeste, e gli umani che si erano bloccati si tinsero dello stesso colore.

La foresta diventò un coro di versi e ruggiti, e in lontananza vidi il lago di Braies e le alte Dolomiti illuminarsi della stessa luce.

«Mamma, cosa succede?» chiesi, stringendo forte il suo braccio.

«Non temere,» sussurrò lei dolcemente, «questa è l’antica magia elfica, la più pura che esista.»

La luce si staccò dai piccoli volati e risalì verso il cielo. Successe la stessa cosa agli umani e al lago, e quando la luce abbandonò le montagne il cielo si colorò di un luminoso azzurro che rischiarì ogni cosa sino a consumarsi in uno squarcio silenzioso. Durò pochi secondi, ma il ricordo restò indelebile nella mia memoria.

«Ora tornatevene a casa.» ordinò Azziithe, stanco e affannato, «Domani starete meglio.» e senza aggiungere altro tornò silenziosamente nella sua capanna.

Noi Elfi restammo nella piccola piazza finché il branco di umani non svanì tra gli alberi della foresta dove l’echeggiare del loro “grazie” sembrava non volersi fermare.


Il giorno seguente, dall’alto di un albero su cui mi ero arrampicato, vidi il lago pieno di umani. Avevano organizzato una grande festa, tutti si abbracciavano, danzavano, nuotavano insieme nelle pure acque del lago. Riuscii a scorgere un grande stendardo la cui scritta vibrava sul limpido cielo azzurro:


“VA TUTTO BENE”.


Ricordo quella festa come fosse ieri, eppure sono passati trecento anni da quando conobbi Luca.

Numerose lune sono cambiate, molti soli sono tramontai oltre le creste delle Dolomiti e gli umani sono rimasti gli stessi delle storie che mio padre mi raccontava per dissuadermi dall’abbandonare la mia casa.

Dopo pochi giorni erano tornati a strappare via i nostri alberi come fossero una malattia della terra.

Hanno distrutto il mio villaggio, la mia casa, ucciso molti dei nostri e oggi, come quel lontano giorno, sono qui a implorare il nostro intervento.

Ora ci siamo spostati a nord ed io sono diventato il capo anziano del mio villaggio, ed è a me che quest’uomo sta chiedendo aiuto.

In lui vedo la stessa disperazione che vedevo negli occhi gonfi del padre di Luca.

«Saggio, ci aiuterai?»

Che faccio? Li aiuto?

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