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LA CONTADINA DI ASIAGO



«Dov’è? Dov’è finito?»

Marta, la Contadina di Asiago, vagava smarrita tra gli alti arbusti oscuri del bosco oltre la sua tenuta, e la sua voce, inter­rotta da singhiozzi convulsi, dal tramonto gridava senza so­sta lo stesso nome: «Luigi».

I suoi occhi smeraldini brillavano all’ argentea luce della luna, e un piccolo rigolo d’acqua salata le colava lungo il viso dalla pelle d’alabastro. Gemette di dolore quando strappò a mani nude dei rovi che le impedivano il passag­gio, e quando realizzò che oltre a quelli ve ne erano degli altri, ancora più spinosi, gridò al cielo parole in­compren­sibili mostrando a quel lontano manto illuminato un volto invecchiato dalla disperazione.

«Non lo troverò mai, e la colpa è solo mia!» esclamò tiran­dosi i lunghi capelli ramati.

S’inginocchiò, un po’ come avrebbe dovuto fare quella stessa mattina in chiesa, eppure, in quel momento, sem­brava aver perso la fede verso il suo amato Signore.

«Questa è la mia punizione, la punizione divina per le mie azioni.»

Tra le lacrime, Marta ripensò con rimpianto al giorno in cui il suo destino s’era incrociato con quello di Luigi, e come rivivendo in un breve flashback le ultime settimane, gridò nuovamente il nome del disperso: «Luigi».


***


Nel 1475, la contea di Asiago, un piccolo borgo di monta­gna, con­tava solamente trecento trentacinque anime.

I benestanti vivevano in paese, circondati da tutti gli agi che la contea aveva da offrir loro, anche se, i lussi, quelli veri, erano scono­sciuti ai montanari; ma questo non im­portava ai Siori. Per loro la cosa più importante era non mescolarsi con i contadini, denominati dagli stessi Siori: “iPoareti”.

Questi ultimi vivevano in piccole fattorie di legno fuori dalle mura della contea, e tra il verde della foresta e i pro­fumi della natura, tra­scorrevano le loro gior­nate a lavorare i campi e a badare al bestiame.

I due ceti interagivano tra di loro solo la domenica, il giorno del mer­cato, dopo le due messe tenute da don Gino che ad ogni liturgia rimproverava i fedeli dicendo loro che la chiesa era abbastanza grande per tutti, e che agli occhi del Signore, erano tutti uguali.

Fiato sprecato, quelle parole venivano scordate da tutti gli abitanti – Siori e Poareti - non appena abbando­navano il luogo sacro.

Non vi era una vera motivazione per la loro antipatia, non ci sono stati screzi o bat­taglie tra le due fazioni; semplice­mente non si sopportavano.

Ma tra tutti, vi era una donna il cui odio per i Siori an­dava oltre la semplice indifferenza e questa era Marta, “La Con­tadina di Asiago”.

Marta veniva chiamata così perché era l’unica donna dell’intera contea a badare da sola a una fattoria. Lei non voleva certa­mente ci­mentarsi in quell’impresa poco fem­minile, ma dopo la prematura scomparsa del marito Gigi, morto per una brutta caduta dal cavallo, non ha avuto molta scelta, e per non finire a men­dicare davanti la chiesa, ha assunto il ruolo di uomo e donna di casa.

La giovane vedova era un punto di riferimento per i Poa­reti; amava la sua terra, la sua gente e non riusciva a ne­gar loro aiuto. Una donna di gran cuore che nascondeva però un lato oscuro.

Tutte le notti, quando il campanile di Asiago suonava il dodicesimo rintocco, Marta si recava in silenzio nella con­tea, e come una fanciulla dispettosa, infastidiva il sonno dei Siori.

Inizialmente si limitava a gridare dentro le finestre aperte delle case, o a colpire le porte con sassi e legni, ma negli ultimi tempi, Marta aveva iniziato a distruggere giardini, a spargere letame di cavallo davanti le porte e, cosa peg­giore, a uccidere gli animaletti domestici, finché, durante il solstizio d’estate, un bambino che non riu­sciva a prender sonno, e s’era perso a guardare la tonda luna dalla finestra della sua came­retta, non la vide gettare dello sterco da­vanti la porta del vicino.

I loro occhi s’incrociarono per diversi istanti, e quando Marta si portò il magro indice alla bocca per invitarlo a non fiatare, Luigi gridò.

E come dargli torto? Chi non urlerebbe davanti una donna scheletrica e ve­stita con abiti apparentemente rubati a uno spaventapasseri che nel cuore della notte, gettando letame davanti le porte delle abitazioni, ti intima a tacere?

La donna allertata scappò lasciando il sacco di concime a terra e, aiutata dall’ombra delle case in pietra, sparì dalla vista del fanciullo e dei genitori che prontamente l’ave­vano rag­giunto.

Luigi non lo sapeva, ma presto avrebbe rivisto gli occhi smeral­dini di Marta.

Il giorno seguente, Marta si risvegliò dopo sole due ore di sonno, due ore disturbate dal pensiero che se si fosse re­cata al mercato, quel bambino probabilmente l’avrebbe ri­conosciuta.

«Marta, sei ancora a letto?»

La donna lasciò di colpo l’alone umido della sua schiena im­pressa sulle lenzuola rammendate, e guardinga, spiò dalla fi­nestra sopra il suo letto.

«Oh Signore!»

Marta sussultò quando vide riflessa nel vetro l’imma­gine di uno spettro, e col cuore che pulsava come dopo una corsa, tornò a rannicchiarsi tra le umide lenzuola.

“Era il diavolo,” pensò, “è venuto a prendermi per i miei pec­cati!”

Si fece il segno della croce per tre volte, e in silenzio ini­ziò a recitare una lunghissima preghiera.

«Marta!» gridò nuovamente qualcuno, «Delajla è ancora nella stalla, so che sei in casa.»

Questa volta Marta riconobbe la voce dell’uomo. Si tran­quil­lizzò e guardò nuovamente fuori dalla finestra.

Fu in quel momento che si rese conto che l’immagine che l’aveva angosciata a tal punto da farle quasi venire un at­tacco di cuore non era altro il riflesso del suo volto, un viso distorto dalla stanchezza e dall’ansia.

Si toccò le profonde occhiaie scure, appesantite da gonfie borse che trascinavano verso il basso le palpebre infe­riori, e con una nota amara nella voce, sussurrò: «Marta, quand’è che ti sei lasciata andare così?»

Chiuse gli occhi e gli strofinò con foga. Chissà, forse vo­leva le­var via quelle macchie scure, che la facevano sem­brare una nonna piuttosto che una ragazza di appena vent’anni.

Rassegnata a un volto molto più vecchio del suo, Marta aprì la finestra e vi guardò oltre.

Dalla camera da letto Marta poteva vedere tutti i suoi campi il­luminati da un’alba rosata, la stalla, costruita solo due anni prima dallo scomparso marito e una piccola ri­messa in cui te­neva alcuni attrezzi, ed era proprio af­fianco a quel ripostiglio che Arturo, l’anziano vicino di casa, la stava chiamando.

«Marta!» esclamò l’uomo tenendosi il cappello di paglia con la mano unta, «non è da te dormire fino a queste ore» concluse, mostrando un sorriso sdentato.

Marta non sorrise, non salutò nemmeno, e il suo sospiro ar­rivo sino alla chiesa in cui don Gino stava ultimando i prepara­tivi per la prima messa, riservata proprio ai Poa­reti.

«Marta, stai bene?» chiese l’uomo vedendo l’espressione smarrita della donna, e afferrando per le briglie un altret­tanto vec­chio asino, si avvicinò alla finestra.

Ora i due erano faccia a faccia, e Marta, intimorita per l’alito che poteva avere, fece due passi indietro.

«Arturo, mi devi scusare,» disse la donna sistemandosi fretto­losamente i lunghi capelli ramati, «ma ho passato una notta­taccia.»

L’uomo la guardò di rimando, poi sorrise.

«Tu?» domandò, «pensa al povero Luigi, il figlio di Maria e Giustino.»

Arturo non finì neanche la frase che Marta era tornata sui suoi passi, e con veemenza, chiese: «Cos’è successo?»

Questa volta fu Arturo a indietreggiare, spaventato per la vio­lenza con la quale Marta gli aveva posto la domanda.

«Nulla, nulla di irreparabile,» si affrettò a rispondere sten­dendo le braccia come a proteggersi da un demone, «ha solo preso uno spa­vento. Questa notte, l’Ignoto,» così chia­mavano la persona che indispettiva il sonno dei Siori, ignari della se­conda identità di Marta, «ha colpito ancora. Stava get­tando dello sterco davanti la porta di Giuliano quando Luigi lo vide.»

Marta ascoltava in silenzio, ansiosa di sentire il seguito.

Il suo cuore palpitava; mugugnò tentando di creare nuova sa­liva, ma la bocca era completamente asciutta. Persino deglu­tire le risultava doloroso.

«E poi?» domandò, forse manifestando un’ansia inaspet­tata.

Infatti il volto di Arturo si tramutò in una smorfia sor­presa, e notandola, Marta aggiunse: «Ha beccato quel fa­rabutto?»

Arturo si grattò la folta barba grigia, si colpì il pancione, e scosse la testa in senso di dissenso.

Marta, che fino ad allora si stava scorticando le pellicine del pollice con l’unghia dell’indice, colpì il cornicione della fine­stra, facendo sobbalzare Arturo.

«Marta, sicura di stare bene?»

La donna riacquistò colore, e mostrando un sorriso a tren­ta­quattro denti, annuì.

«Mi aspetti? Mi rendo presentabile ed esco» e senza aspet­tare una risposta dal sempre più perplesso Arturo, chiuse la fi­nestra e iniziò a spogliarsi.


Durante il tragitto, Arturo non tornò più sull’argomento “Ignoto”, parlò invece per tutto il tempo di quanto fosse sod­disfatto delle sue vacche: «Sai, solo ieri ho munto più di due­cento litri di latte». I suoi occhi brillavano come quelli di una sposa.

«Beato te,» ammise Marta amareggiata, «il latte delle mie mucche ultimamente è acido, come se fosse rimasto sotto al sole.»

«Acido?» domandò Arturo dando un colpo di redini al po­vero Cesare, l’asino che trainava a fatica il carro appe­san­tito dai due, da tre forme di formaggio, da alcuni salami, dalle cento bottiglie di latte e dalla verdura. «Hai provato a cambiare la loro dieta? Magari mangiano tanto fieno e poca erba.»

Marta sospirò, forse non per l’acidità del latte delle sue muc­che ma perché, oltre le mura della contea di Asiago, intravide la sagoma di un bambino, la sagoma del piccolo Luigi.

“Signore mio, fai che non mi riconosca” pregò in silenzio, ma a quanto pare il signore era adirato con la Contadina di Asiago, sia perché aveva saltato la funzione di don Gino sia per le sue marachelle.

Il bambino, per mano alla sua mamma, aveva quasi rag­giunto la chiesa quando, attirato dallo sguardo folle della donna, si voltò e con la mano libera la indicò.

Gli occhi di Marta si erano nuovamente intrisi di terrore; le oc­chiaie e le borse erano tornate a invecchiarle il viso: il pagamento per le sue malignità.

Arturo notò questo suo cambio d’umore, e vedendola im­palli­dire, si fermò alle porte della contea.

«Amica mia, cosa ti prende ora?»

Marta estrasse una pezza rosata dalla manica della veste bianca e si tamponò un rigolo di sudore sopra l’occhio de­stro.

«Temo sia solo stanchezza, forse è meglio se me ne ri­torno a casa.»

Marta scese dal carretto dell’amico, e senza degnarlo di un saluto, iniziò a correre verso la sua fattoria


***


I giorni passarono senza pietà; Arturo aveva provato a bussare alla porta della fattoria della Contadina di Asiago più volte, ma la proprietaria sembrava essersi dileguata.

In realtà, Marta non aveva risposto di proposito all’amico, non vo­leva di certo farsi vedere ridotta così dalla persona a lei più cara, per questo aveva iniziato a lavorare ai suoi campi di notte.

La mattina per lei iniziava quando il sole tramontava; la notte, quando il sole sorgeva. In una settimana aveva dor­mito sì e no dieci ore, e aveva mangiato solo tre mele.

La domenica successiva però, Marta, dopo aver nuova­mente guardato quello spettro riflesso sul vetro della fi­ne­stra della sua camera, decise che era arrivato il mo­mento di reagire.

“Non posso permettere a un bambino di impedirmi di vi­vere” e con quel pensiero, Marta tirò fuori dall’armadio una veste col cappuccio, un fazzoletto bianco, una fialetta in vetro con scritto “Distillato”, e attese l’arrivo delle tene­bre.

Le campane della vecchia chiesa avevano appena risuo­nato la mezzanotte, e per le sgombre strade di Asiago, una fi­gura nascosta sotto un cappuccio si era appena fermata davanti la casa del piccolo Luigi.

Ci fu un rumore, e Marta sobbalzò.

«Maledetta civetta.»

La piccola casa in pietra del bambino confinava sul lato de­stro con quella del dottor Merlo, il medico del paese; a destra invece, limitata dalla strada che collegava la contea alle le campagne.

Marta lanciò un’occhiata alle abitazioni vicine e, notando che nessuna candela era accesa, avanzò a punta dei piedi verso la finestra spalancata della cameretta del piccolo.

Gli occhi della donna erano lo specchio della sua pazzia, pazzia riflessa non sono nel suo volto, ma anche nei suoi gesti. A ogni metro infatti, Marta, spaventata dal rumore dei propri passi, scuoteva le braccia, un po’ come fossero ali di gallina.

«Bene, non mi resta che entrare» disse quando raggiunse la finestra.

Scavalcata il cornicione, Marta si ritrovò in una pic­cola e caotica stanza: giocattoli in legno ricoprivano quasi com­pletamente il pavimento.

Avanzò lenta evitando i giocattoli, superò il box che avrebbe dovuto contenerli sulla sinistra e quando rag­giunse un piccolo giaciglio in legno e paglia guardò quel piccolo ed indifeso bambino, e la testa iniziò a macinare pensieri tormentati: “Ma è giusto farlo? Per cosa poi? In fondo è solo un bam­bino”.

Rimase ferma lì ad osservarlo con fare inquetante.

Se qualcuno l’avesse vista, le avrebbe di certo conficcato un piccone nel petto.

Marta fece un respiro profondo, un respiro che racchiu­deva uno scontro epocale: tornare a casa e lasciarlo dor­mire o portare a compimento il suo piano?

Ma il fato beffardo le tolse la possibilità di scegliere: «Chi sei?». Luigi si era svegliato.

Marta non ci pensò due volte, si sistemò il cappuccio, estrasse dalla tasca il fazzoletto imbevuto di distillato e lo spinse con cattiveria contro in volto del bambino. Luigi non tentò nemmeno di proteggersi, tantomeno di urlare poiché perse i sensi dopo la prima inalazione.

Marta guardò la porta della cameretta e, constatando che i genitori non si erano svegliati, afferrò il bambino, lo mise in spalla e, come una gradita ospite, uscì dalla porta di casa.

La contea riposava serenamente, ignara che l’indomani avrebbero appreso una delle notizie più brutte del secolo: un bambino era scomparso.


***


«Quanto pesa.»

Era passata mezzora da quando Marta aveva preso il sen­tiero del bosco e, come un asino, trasportava l’ancora sve­nuto Luigi.

La luna e il manto stellato erano le uniche fonti di luci, suf­fi­cienti però per far arrivare la Contadina di Asiago al Covo del Diavolo, una grotta nel cuore della montagna.

Da secoli i padri tramandavano ai propri figli la leggenda di quel luogo, persino Marta la conosceva, e ferma davanti l’antro, ripensò a quando il suo di padre gliel’aveva rac­contata.

“Dalla caverna della montagna, bene e male nacquero e lì, bene e male lottarono. Fu il male a perdere e lì, Dio, con­finò il Diavolo in persona.”

La grotta era alta poco più di un uomo adulto, larga quanto le porte di una chiesa, ma al suo interno non v’era traccia di pro­fumi sacri come l’incenso o il crisma, bensì un puzzo di muffa e carcasse putrefatte: l’odore del male.

Marta, con la sola mano libera, si fece il segno della croce prima di entrare, poi, la posò all’umida parete di sinistra ed entrò.

Immersa nell’oscurità, la donna avanzò per qualche mi­nuto, lenta, la parete come unica guida e, attenta a non in­ciampare, si fermò quando non riuscì più a scorgere nem­meno la propria mano.

«Credo che qui faranno fatica a trovarti.»

Adagiò al suolo roccioso il piccolo corpo gli acca­rezzò il volto e gli sussurrò: «Che Dio abbia pietà della tua anima».


***


«Marta, sei in casa?»

L’ansimante voce di Arturo non svegliò la povera donna: non aveva chiuso occhio. Aveva trascorso l’intera notte a rigirarsi in un letto che le pareva esser diventato una cassa da morto bianca, umida come la prigione del piccolo Luigi.

Aveva imparato a memoria la posizione degli assi in legno del soffitto; dato nomi ai tre ragnetti della sua stanza, Lalà, Lelè e Bobby.

Quando Arturo chiamò nuovamente il suo nome, e bussò con veemenza la porta della sua casa, Marta si alzò, si stro­finò il volto stropicciato con le mani callose, e pensò che era inutile preoccuparsi, ormai nessuno avrebbe potuto spifferare la sua identità.

Fu quel pensiero macabro che riuscì a strapparle un sor­riso, si rese presentabile e, dopo aver respirato a fondo, uscii.

La campagna era baciata da un sole labile, le nuvole gli ave­vano lasciato un momento di tregua, e Arturo, più si­mile a Marta di quanto non lo fosse mai stato, marciava dal capanno degli attrezzi alla porta della piccola casa senza tregua.

«Arturo, cosa succede?»

Vedendola, l’uomo placò la sua marcia. «Notizie orribili, amica mia, notizie orribili» i suoi occhi erano vitrei, come se avesse pianto, «Luigi, il bambino che ha visto l’Ignoto, è scomparso nel cuore della notte. Tutta la contea è in sub­buglio, e noi con­ta­dini con loro. Stiamo organizzando squadre, anche i cani stanno cercando qualche traccia.»

“Cani? Non avevo pensato a quelle bestiacce.”

«Dove lo stanno cercando?»

«Ovunque,» rispose Arturo, «ovunque.»

I due amici si guardarono, e Marta pregò che qualcosa riu­scisse a depistare i segugi: solo loro avrebbero potuto tro­varlo, ma non poteva lasciar nulla al caso, così, come colta dal timore, gridò: «Dobbiamo aiutarli.»

Arturo annuì e i due raggiunsero la contea.

Asiago si era trasformata in una sagra, ma non vi era trac­cia di cibo, tantomeno di sorrisi.

I cani guaivano al vento; le donne piangevano; gli uomini im­precavano. Don Gino cercava di riportare la calma nell’angusta piazza del mercato gridando preghiere, ma nessuno sembrava udirle.

Maria e Giustino, i genitori di Luigi, parlavano con alcuni con­tadini e quella scena provocò in Marta un’amara tri­stezza.

“Solo ora ci parlano, solo perché hanno bisogno del nostro aiuto.”

«Arturo,» gridò Maria vedendolo. Marta vide che la donna tra le mani stringeva una maglietta bianca e pun­tualmente, l’an­nusava «Marta!» ora la madre aveva rag­giunto i due.

«Maria, come stanno andando le ricerche?»

«Nessuna nuova dalla prima squadra, ora parte la se­conda» e indicò un gruppo di dieci persone con tre cani.

Marta se ne stava in disparte, non osava nemmeno incro­ciare i suoi occhi con quelli della madre preoccupata.

«Lo troveremo, te lo assicuro» e con quelle parole, Arturo rag­giunse il gruppetto coi cani.

Marta non si era nemmeno accorta che era rimasta sola con Maria, e quando se ne reso conto, si sentì sprofondare dall’an­goscia.

«Sai Marta,» iniziò la donna guardando non la Contadina di Asiago, ma i Siori e i Pareti, «mi spiace che riusciamo ad abbat­tere le differenze sociali solo nel momento della di­spera­zione.»

«Solo perché voi vi sentite superiori!» Marta credeva di aver solo pensato quelle parole, ma quando vide il volto incerto della madre di Luigi, già abbastanza disperata per la scomparsa del figlio, si accorse di averle dette non solo ad alta voce, ma anche in tono sprezzante.

Maria la guardò, gli occhi vibravano, finché il marito non la ri­chiamò.

«Devo andare, ho un figlio da cercare. Ma prima vorrei che tu ricordassi una cosa: io, a differenza tua, ti ho sempre salutata e nutro un grande rispetto per te» e accarezzan­dole il volto, Maria tornò da Giustino.

In pochi minuti, la piazza della contea si svuotò, con l’ec­ce­zione di Marta, rimasta immobile vicino la casa di Luigi, e di Don Gino che era rientrato nella sua chiesa a pregare.

La Contadina di Asiago si sentiva come se una mano invi­sibile le stesse stritolando lo stomaco, ma non era una mano, bensì il senso di colpa.

«Marta, fregatene» si disse, e senza badare alle grida che pro­venivano dai boschi vicini, prese posto in una panca all’ombra di una quercia, e vi ci restò per tutto il giorno.


***


Le ore passarono inesorabili, e quando il cielo stava ini­ziando a tingersi del rosso del tramonto, le squadre sta­vano tornando a popolare la triste contea.

«Non lo troveremo mai.»

«Nemmeno i cani sono riusciti a fiutarlo.»

Marta gioii silenziosamente al suono di quelle parole.

“Forse l’odore della caverna è riuscito a nascondere quello del bambino, per questo i cani non riescono a trovarlo.”

Poi però, successe qualcosa che Marta non avrebbe mai pen­sato potesse succedere.

Rivide i due genitori rientrare, sporchi e affaticati; i loro occhi erano consumati dalla disperazione; Maria, che non riusciva a reg­gersi in piedi, le ricordò se stessa il giorno in cui ritrovò il marito morto vicino la loro fattoria.

Lei conosceva quel dolore, quella sensazione di assoluta impo­tenza davanti un distino maligno.

“Marta, lascia perdere” tentò di dirsi quando lo stomaco tornò a contrarsi, ma fu del tutto inutile.

Maria gridò, un urlo che persino Dio avrebbe potuto sen­tire, e se si fosse affacciato sulla Terra per vedere cosa fosse suc­cesso, avrebbe certamente visto l’anima oscura della Conta­dina di Asiago.

Furono la paura del castigo divino e il grido di dispera­zione che spinsero Marta ad alzarsi e, come un fantasma, si mosse invisi­bile verso il bosco in direzione del Covo del Diavolo.


***


La donna affannata aveva percorso il sentiero di Sempio, la via battuta che conduceva alla grotta e, una volta rag­giunto l’antro, vi entrò.

Le pareti rocciose, tinte del rosso del tramonto sembra­vano insanguinate. Marta avanzo a passi leggeri sussur­rando piano, timorosa forse di farsi scoprire dal Diavolo, il nome del bambino, ma nessuno le rispose.

Raggiunse un punto in cui una stalattite ed una stalagmite si erano unite in una colonna larga quanto il tronco di un pino, oltre, la grotta si fece buia.

«Luigi» ma ancora nessuno rispose.

“Ma dov’è andato?”

Constatato che li dentro, oltre a lei e forse il male, non c’era nessuno, Marta decise di uscire e, con l’ansia simile a quella di Maria, andò a cercare il fanciullo nel cuore del bosco.

«Dov’è? Dov’è finito?»

Marta, la Contadina di Asiago, vagava smarrita tra gli alti arbusti oscuri del bosco oltre la sua tenuta, e la voce, inter­rotta da singhiozzi convulsi, dal tramonto gridava senza so­sta lo stesso nome: «Luigi».

I suoi occhi smeraldini brillavano all’ argentea luce della luna, e un piccolo rigolo d’acqua salata le colava lungo il viso dalla pelle d’alabastro. Gemette di dolore quando strappò a mani nude dei rovi che le impedivano il passag­gio, e quando realizzò che oltre a quelli ve ne erano degli altri, ancora più spinosi, gridò al cielo parole in­compren­sibili mostrando a quel lontano manto illuminato un volto invecchiato dalla disperazione.

«Non lo troverò mai, e la colpa è solo mia!» esclamò tiran­dosi i lunghi capelli ramati.

S’inginocchiò, un po’ come avrebbe dovuto fare quella stessa mattina in chiesa, eppure, in quel momento, sem­brava aver perso la fede verso il suo amato Signore.

«Questa è la mia punizione, la punizione divina per le mie azioni.»

Tra le lacrime, Marta ripensò con rimpianto al giorno in cui il suo destino s’era incrociato con quello di Luigi, e come rivivendo in un breve flashback le ultime settimane, gridò nuovamente il nome del disperso: «Luigi».

Poi, quando tutto sembrò perduto, una voce proveniente dal bosco la riscosse dalla disperazione: «Mamma!»

«Luigi?» gridò lei di rimando.

Marta si rialzo, si asciugò il moccio al naso con la manica della veste e vagò incontro a quella voce.

«Dove sei? Parla!»

«Sono qui, vicino all’albero.»

“Stupido bambino, siamo nel bel mezzo di un bosco!”, ma almeno aveva parlato e, oltre un cespuglio di lamponi, sotto un pino, Luigi allungava le braccia verso di lei.

Marta guardò gli occhi blu del bambino e in quel mo­mento si rese conto di quanto stupido fosse stato rapirlo.

Si sentii improvvisamente più leggera, l’angoscia era final­mente svanita. Persino la fame le era tornata.

«Dov’è la mia mamma?» domandò Luigi strofinandosi le labbra disi­dratate.

«Ti ci porto subito.»

Marta prese in braccio il bambino, lo ripulì dal fango e ini­ziò a camminare verso la contea.

Erano a metà strada quando Luigi, ora più calmo, le disse: «Ma io ti conosco.»

Il cuore di Marta vacillo; alla sua destra c’era un burrone e pensò di gettarvi dentro il fanciullo, un pensiero ignobile che svanì non appena Luigi tornò a parlare.

«Tu sei la Contadina di Asiago, quella che ci vende i po­modori. Sai, li mangio sempre.»

Marta si rasserenò. Il bambino, la domenica precedente, non l’aveva guardata perché aveva capito che lei era l’Ignoto, ma per­ché amava i suoi pomodori, e col sorriso sulle labbra, e dieci anni in meno in volto, Marta raggiunse finalmente la piazza di Asiago.

«Luigi!»

La voce di Maria risuonò non solo nella piccola contea, ma anche in quelle vicine.

«Mamma» rispose il bambino scivolando dalle braccia di Marta, commossa dal loro abbraccio, esplose in un pianto liberatorio, le lacrime questa volta avevano un retrogusto dolce.

I cittadini si complimentarono con lei; alcuni le diedero pacche sulla spalla, altri invece volevano abbracciarla. Non solo i Poareti, ma anche i Siori.

Le campane risuonarono un inno di gioia e, in poco tempo, le due fazioni prepararono lunghi tavoli e fuochi, creando una festa senza precedenti.

Mai prima di allora Siori e Poareti si erano abbracciati, mai avevano festeggiato insieme, eppure, un gesto ignobile come quello che aveva fatto la Contadina di Asiago, era riuscito ad abbattere una barriera sociale eretta secoli prima. Marta, ancora scioccata per tutto quell’amore che i citta­dini erano riusciti a dimostrarle, si rese conto, con ramma­rico, di una cosa importantissima: è nel dolore che l’uomo riscopre la pro­pria umanità.

“Siamo veramente stupidi.”

Da quel giorno le parole “Siori” e “Poareti” furono cancel­late; don Gino teneva un’unica messa; la domenica, dopo il mercato, tutti si riunivano in piazza per consumare for­maggio, vino, carne e verdura.

Le differenze sociali erano state abbattute e Marta, dopo molti anni, tornò a sorridere.

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