CAPITOLO 1
LA FAMIGLIA RICCI

«Beh, amici miei, pare proprio che Elio si stia per svegliare.»
L’unica casa blu di Strada dello Stige era appena stata intaccata dai primi raggi del sole, e un uomo dai corti capelli ramati, seduto sul ramo di un salice piangente, la fissava meravigliato.
Se non si considerava il lungo frac perlaceo che sembrava appartenere a un’altra epoca, o il fatto che mentre i suoi occhi smeraldini erano fissi sulla casa, parlava ai due passeri che abitavano l’albero, nulla in lui sembrava strano, nulla. Anche se, nonostante l’aspetto giovanile, quell’uomo emanava una strana aura eterea, come fosse lì dal principio.
«Elio Ricci, ti ho detto di svegliarti!»
La voce aspra, che scosse l’assonnata via, proveniva dall’ultimo piano della palazzina, e l’uomo sull’albero, quando la udì, mormorò: «Benedetta dev’essere già infuriata».
E aveva ragione. Da quando il marito era uscito per “fare benzina”, sei anni prima, Benedetta aveva dovuto fare sia da madre che da padre ai figli Sara, Elio e Daniele.
Non aveva neanche quarant’anni, eppure, i suoi occhi, stanchi e trascurati, sembravano quelli di una donna di mezza età.
«Papà, ho il turno di mattina, potresti portare tu i bambini a scuola?» domandò Benedetta dal bagno mentre si infilava a fatica in un paio di jeans scoloriti.
L’ingombrante famiglia Ricci viveva da qualche anno a casa dei genitori di Benedetta, due anziani che si erano resi disponibili a ospitare figlia e nipoti finché non si sarebbero rimessi in piedi. Forse credevano che qualche mese sarebbe stato sufficiente, eppure, dopo sei anni, la famigliola era ancora lì.
«Li porto io, tuo papà si è già chiuso in camera» mormorò Elvira, la madre di Benedetta, indicando, con un indice scheletrico, una porta chiusa.
Gigi, il vecchio fotografo del paese, odiava la confusione, e vivere in un tricamere insieme a una moglie brontolona, a una figlia nevrotica e a tre nipoti indemoniati, come li chiamava lui, non era ciò che si aspettava per la sua pensione.
«Mamma, hai visto i cereali? Ne avevo lasciati un po’ per questa mattina.»
Dalla porta del bagno, un ragazzino dai corti capelli corvini, e un viso paffutello, stringeva tra le dita tozze la scatola vuota dei suoi cereali preferiti, e i suoi occhietti verdi guardavano speranzosi quelli della madre.
Era parecchio piccolo per la sua età, e il pigiama, almeno una taglia più grande, lo rendeva ancora più goffo di quanto già non fosse.
«Elio, mangia della marmellata col pane avanzato di ieri» rispose la donna mentre si metteva il rossetto.
«Ma non mi piace la marmellata, lo sai» lamentò lui sedendosi sul bordo della vasca da bagno e affossando il volto tra le mani. tozze.
«Ascolta, so che non ti piace, ma potresti anche sforzarti per una volta» intervenne la nonna che aveva sentito le lamentele del nipotino. «Vieni, tua madre è in ritardo.»
Ma in quel momento, un bambino biondo, e con due occhi azzurri che emanavano vivacità, arrivò dalla cucina facendo roteare un sacchetto di plastica trasparente che Elio riconobbe subito.
«I cereali!» gridò Elio, scattando verso il fratellino, ma questo, molto più arzillo di lui, lo anticipò e corse a nascondersi dietro al divano blu del soggiorno.
«Ridammi i miei cereali» intimò, ma il piccolo Daniele, o Dani, come veniva chiamato da tutti, era troppo su di giri per darglieli.
Cosa avrebbe potuto esaltare così tanto un bambino di sei anni alle sette di mattina?
«Ragazzi» strepitò Benedetta apparendo in soggiorno. «Volete far tardi il primo giorno di scuola?»
Elio sospirò, e vedendo lo sguardo funereo della madre, decise di non giocare con la sua pazienza.
«Scusa, mamma» mormorò, ma dovette lottare con sé stesso per non scagliare un cuscino del divano contro il fratello che lo guardava trionfante.
Sedata la ressa, Benedetta tornò verso il bagno, ma si accorse che la porta era chiusa.
«Sara, apri per favore.»
«Hai avuto tutta la mattina per prepararti, io entro e devo subito uscire?» sibilò Sara, e spalancò la porta con tanta veemenza che le foto e i quadri antichi appesi alle pareti del corridoio vibrarono.
I grandi occhi blu della ragazza, molto simili a quelli della madre, erano socchiusi, quasi ridotti a due fessure da cui scaturì un’ondata di rabbia.
«Oggi inizio il liceo, il momento più importante nella vita di una ragazza, ma alla famiglia non importano queste sottigliezze adolescenziali, dico bene?»
«Eccola…» sussurrò Benedetta, ancora davanti alla porta spalancata del bagno.
Sara si elevò in tutta la sua altezza, ereditata dal padre, e rivolse alla madre uno sguardo di sfida.
«Ma eccola cosa? Ti rendi conto che sono le sette e dieci e devo ancora prepararmi? No, ovvio che no, l’importante è che Benedetta, abbia il tempo di mettersi il rossetto, mio tra l’altro, da sfoggiare con i quattro vagabondi perdigiorno che frequentano quella bettola» sibilò, oscillando una cascata di capelli dorati.
La madre, dotata di grande pazienza, sorrise.
«Se avessi usato il tempo che hai sprecato a vaneggiare, ora saresti pronta.»
Entrò nel bagno, afferrò un pacchetto di fazzoletti, e prima di infilarli nella borsa li mostrò alla figlia.
«Vedi? Avresti perso solo pochi secondi se mi avessi aperto subito» precisò sorridendo, e quando si voltò per salutare i bambini, Sara le fece il verso.
«Adesso devo andare. Buona giornata ragazzi, buon primo giorno di scuo…»
«Che succede cara?» chiese la nonna mentre estraeva dall’armadio della camera di Benedetta un abito nero con fiori rossi e gialli.
«Porca miseria!» esclamò con voce squillante colpendosi la testa con entrambi i palmi delle mani, «Oggi avrei dovuto presenziare al primo giorno di Dani e parlare con la preside di Elio, ma se arrivassi ancora in ritardo, potrei essere rimpiazzata da Luisa.»
Erano le sette e un quarto, e a casa Ricci erano già iniziati i problemi.
«Accompagno Elio a scuola e poi resterò insieme a Dani per l’inserimento. Con la preside parlerai un altro giorno» mormorò la nonna.
Benedetta andò verso la cucina, e iniziò a far scorrere il dito sopra i numeri neri del calendario.
«Okay, oggi è il tredici» sussurrò a bassa voce, «potrei fare mercoledì quindici.»
La signora fece un sorriso quando i suoi occhi si posarono sul numero trenta cerchiato di rosso.
«Elio, manca poco al tuo compleanno, pensa a cosa vuoi» disse frettolosa, spostandosi repentina verso l’attaccapanni tra la porta del bagno e quella della camera dei genitori per prendere la sua borsa nera.
«Tranquilla mamma non mi serve nulla.»
Elio non era mai stato un bambino esigente, mai, neppure da piccolo. Quando al suo settimo compleanno Benedetta aveva dimenticato l’importante giorno, e la sera si era presentata a mani vuote, per non farla sentire in colpa, Elio incartò uno dei suoi giocattoli preferiti, glielo passò e le sussurrò di darglielo. Benedetta scoppiò in lacrime davanti a quel gesto così innocente, e si promise di non dimenticarsene più, e per non sbagliare, ogni anno scriveva sul calendario, sotto al numero trenta del mese di settembre: “Compleanno Elio”.
«Buona scuola bambini, comportatevi bene» si raccomandò stampando un grosso bacio sulla testa dei due maschietti.
«Buon lavoro, mamma» rispose Elio.
Quando la porta si richiuse, Sara sgattaiolò in camera della madre; Elio invece, andò nella sua.
I tre figli condividevano non solo il tetto, ma anche la camera.
Elio e Dani dormivano in un letto a castello, sopra il quale spuntava il poster di Astidestro, il protagonista della serie animata Lottadox, il loro cartone animato preferito.
Sara dormiva invece in un piccolo letto a una piazza coperto da un lungo lenzuolo bianco sul quale il gigantesco viso di Federico, il suo ragazzo, sorrideva al soffitto.
Benedetta aveva fatto una scenata quando la figlia aveva preteso di usarlo come copriletto, ma alla fine si era arresa.
I muri bianchi erano stati invasi da poster di attori e cantanti famosi e fotografie di alcune amiche, fissate con piccole puntine colorate alla parete ormai ridotta a un colabrodo.
Anche in quell’occasione la madre era andata su tutte le furie, minacciandola di levarle il cellulare se si fosse permessa di fare un altro buco sul muro dei suoi nonni. L’unica leva che la povera Benedetta aveva nei confronti della figlia era proprio il cellulare, o come lo chiamava lei “la macchina che non va”. Ogni volta che tentava di mettersi in contatto con Sara, lei non rispondeva e si giustificava dicendo che non andava. Una scusa debole visto che, alla sera, suonava come il centralino di una multinazionale.
La finestra che dava sulla corte interna, aperta per arieggiare la stanza, era ricoperta da una lunga tenda a tema safari che sbatteva, smossa da un debole vento, contro la piccola scrivania di legno chiaro, in tinta con le pareti. Benedetta l’aveva trovata al mercatino dell’usato, e portata a casa per soli venti euro; un vero affare come soluzione provvisoria, tuttavia, si infuriò quando scoprì che Elio l’aveva rovinata con delle incisioni fatte con la punta del compasso.
Era abituato a essere sgridato per cose simili, in molte occasioni infatti, incapace di concentrarsi, si era ritrovato a disegnare cose strane mentre studiava.
«Soffre di deficit dell’attenzione, è molto usuale per i bambini dislessici», aveva detto il dottor Marangon, il neuropsichiatra infantile che seguiva Elio da tre anni.
Quella rivelazione aveva dato una spiegazione ai voti deludenti e alle continue frasi di circostanza degli insegnanti, tuttavia non li attenuò, facendogli perdere non solo la fiducia nel sistema scolastico, ma anche in sé stesso.
Solo tre mesi prima aveva detto addio a quegli insegnanti che tanto l’avevano criticato, non con odio, bensì con un sorriso.
Adesso avrebbe iniziato la scuola secondaria di primo grado, sarebbe partito da zero e non avrebbe dato occasioni di deludere nessuno.
Elio si levò il pigiama e lo posò sopra al letto; scivolò fuori, ed entrò nella stanza della madre dove un enorme armadio a quattro ante conteneva tutti i vestiti della famiglia.
«Esci, non vedi che mi sto vestendo?» gridò Sara acida.
Aveva una minigonna nera, un paio di calze grigie e una camicetta bianca, troppo corta secondo lui. Erano i vestiti che le aveva regalato a San Valentino il suo ragazzo, gli stessi che la madre le aveva proibito di indossare, gettandoli nel sacco dell’immondizia. Ma Sara, astuta, era riuscita a recuperarli e a nasconderli sotto delle vecchie pile, lontani dagli occhi indiscreti della madre.
«Sara, mamma non vuole che…»
Non riuscì a finire la frase che la sorella, un paio di spanne più alta di lui, l’aveva spinto fuori, facendolo cadere contro la scarpiera di legno. In quello stesso istante, Dani stava scappando dalla nonna, urlando e lanciando per aria i cereali inzuppati di latte che finirono sul volto e sui capelli di Elio, come una pioggia di fango appiccicoso.
«Daniele guarda che hai combinato, ora vieni che ti devo vestire, abbiamo solo dieci minuti» gridò severa la nonna, strattonandolo per il braccio e scomparendo nella stanza di Benedetta.
Elio, ancora steso a terra, restò fermo per qualche istante a osservare una ragnatela, ridotta a un grosso filo, penzolare dal soffitto. S’immaginò quel povero ragno sfrattato in malo modo dalla sua casa dalla scopa della nonna.
Povero ragno.
«Che fai ancora a terra?» domandò Sara disinteressata tornando in camera sua. Quando Elio staccò il suo sguardo dalla ragnatela per guardarla, lei era sparita.
Continuando a pensare a quanto brutta fosse la vita per gli insetti domestici, Elio si rialzò senza fiatare, e staccandosi i cereali dai capelli, tornò in camera a cercare i propri vestiti.
Distratto dai capricci di Dani e dalle grida della nonna che tentava di infilargli una camicia di jeans, estrasse un paio di pantaloncini di tuta blu, con cuciture rigide su entrambi i lati e uno spago mordicchiato troppo lungo da un lato e assente dall’altro, una maglietta arancione con le scritte sbiadite, “Le stelle sono tante, ma i sogni sono infiniti”, e un paio di calzini lunghi con strisce nere su tessuto verde.
In genere era la madre a preparargli i vestiti, ma quella mattina, viste le circostanze, aveva dovuto arrangiarsi.
Uscì per tornare nella sua stanza, dove la sorella, coperta da un lungo impermeabile nero, stava raccogliendo il suo zaino nuovo, spingendoci dentro alcuni cosmetici. Poi estrasse da uno dei cassetti uno specchio e iniziò gli ultimi ritocchi.
«Non sei ancora pronto?» domandò senza guardarlo.
«Mi basta un minuto» rispose lui, ancora in mutande.
S’infilò per prima cosa le lunghe calze, poi i pantaloni e infine la maglietta.
Sara, ancora concentrata a specchiarsi, vide il riflesso del fratello.
«Elio, ma davvero vai conciato così?»
«Perché?» chiese lui scrollando le spalle.
La sorella lo guardò, partendo dai piedi, fermandosi solo quando incrociò i suoi occhi.
«Ah, niente. È la prova che sei stato adottato.»
Era una cosa che Sara ripeteva spesso, una cosa che tra fratelli ci si dice, ma che infastidiva molto Elio.
«Smettila Sara, non è vero che sono adottato» replicò lui, ma ormai la sorella era già uscita, e dall’ingresso la nonna disse che dovevano andare.
Elio corse a prendere un paio di scarpe bianche con gli strip, afferrò lo zaino rosso del suo cartone animato preferito e, dopo aver salutato il nonno, uscì. Lo faceva sempre, anche se non aveva mai ricevuto risposta.
Scesero di corsa le scale, Daniele diede una spallata alla nonna, che si aggrappò al corrimano in legno, evitando una brutta caduta.
I tre fratelli e la nonna salirono nell’unica macchina posteggiata nel parcheggio di ghiaia del condomino, e al terzo tentativo, dopo un sonoro botto, la vecchia Clio rossa si avviò.
La cosa strana però, fu che nessuno della famiglia si accorse della persona seduta sul ramo del salice che li salutava, solo Elio, che allegro gli fece un cenno con la mano.
Il rumore metallico della Clio si allontanò da Strada dello Stige, e l’uomo misterioso spostò lo sguardo in direzione dei due piccoli e spaventati passerotti.
«Sappiate che non era mia intenzione disturbarvi, volevo solo vedere il ragazzo.»
In quell’istante, a pochi centimetri dall’albero, l’aria si aprì in uno squarcio senza detriti, un’apertura pulita e silenziosa. Prese la forma di una porta, luminosa come l’alba, e una testa tonda ricolma di capelli rossi spuntò, e guardò sorridente l’uomo misterioso.
«Sono arrivato in tempo?»
«Vorrei poterti dire di sì, caro Zenit, ma ancora una volta, la tua puntualità è in ritardo rispetto gli eventi importanti.»
«Mannaggia a Velo» lamentò Zenit uscendo dalla porta di luce. «Lui e le sue strampalate idee di modernizzare le fantasie degli Estrosi. Ma dimmi, l’hai visto?»
L’uomo estrasse daltaschino interno del frac un piccolo cilindro di cristallo a punta diamantata e lo puntò contro l’aria, iniziando a muovere la mano, come se stesse disegnando. Dalla punta ne scaturì una scia luminosa che prese la forma di un disco d’aria, e dopo un ultimo tocco si solidificò. A quel punto vi posò entrambi i piedi e il disco iniziò la sua lenta discesa, fino a dissolversi quando toccò il suolo erboso.
«Ovvio, amico mio» ridacchiò.
«Cos’è che ti diverte?»
«Quando mi ha visto, il ragazzo mi ha salutato. Non ha trovato bizzarra la mia presenza sopra l’albero, come se per lui fosse la cosa più naturale di questo mondo. Lo trovo affascinante» concluse riponendo nel taschino il piccolo oggetto e gli occhiali.
«Quindi ti ha visto?» domandò Zenit stralunato.
«Certo.»
«E quando possiamo rivelarci a lui, Astro?»
«Quando una mela è buona per essere mangiata?» domandò questo sospirando. «Quando si stacca dal suo ramo, perché pronta a essere raccolta. Rivelarci ora a lui sarebbe non solo sbagliato, ma anche controproducente. Temo quindi che dovremmo attendere finché non sarà lui stesso a capire quanto possa fare la sua fantasia, nel frattempo, a noi non resta che attendere.»
Zenit non parlò, ma si grattò il pancione con sguardo vacuo.
«Dai, ora torniamo a casa, amico mio. Temo di aver tediato sin troppo la quiete di quei piccoli passeri» commentò Astro indicando il nido, e dopo aver guardato un’ultima volta la casa blu di Strada dello Stige, i due uomini entrarono nella porta di luce, svanendo nel silenzio del mattino.